«Zindabad Afghanistan, zindabad Afghanistan!». Lunga vita all’Afghanistan cantano i manifestanti a Jalalabad, nella provincia orientale del Paese, nel giorno dell’anniversario dell’indipendenza dagli inglesi ottenuta nel 1919 da re Amanullah Khan. Lo stesso avviene a Kabul, dove i manifestanti vengono dispersi dai Talebani con la forza.

Manifestazioni anche ad Asadabad, capoluogo della provincia orientale di Kunar, dove secondo la Reuters sarebbero decine le vittime, forse causate dalla ressa, forse dalla repressione dei Talebani. Ancora drammatica la situazione all’aeroporto della capitale, dove migliaia di persone cercano di essere evacuate e premono sui cancelli d’ingresso, ma spesso sono respinte violentemente dai Talebani e dai soldati statunitensi, impegnati a difendere le alte mura che dividono chi può partire e chi deve restare.

CHI RESTA TEME, se ha collaborato con le forze degli Stati uniti o della Nato. La Bbc ha potuto leggere un rapporto confidenziale realizzato dal Norwegian Centre for Global Analyses, centro che fornisce informazioni di intelligence all’Onu: «I Talebani stanno arrestando e/o minacciando di uccidere o arrestare i familiari dei loro target, a meno che questi ultimi non si consegnino».

Un lavoro che passa per le schedature e per il controllo di chi raggiunge l’aeroporto di Kabul. Unama, la missione dell’Onu in Afghanistan intanto ha deciso di trasferire il personale in Kazakhistan, per il momento. Lo stesso vale per le altre agenzie delle Nazioni unite.

Tra quanti restano, c’è chi prova a resistere. Nella capitale decine di persone hanno trasportato per le strade del centro una bandiera di circa duecento metri. Il tricolore nazionale, simbolo di unità, in molte aree ammainato dai Talebani e sostituito con la bandiera dell’Emirato islamico.

Si tratta di manifestazioni circoscritte, ma significative. Richiamano le invocazioni «Allah Akbar» con cui, nei giorni della veloce offensiva talebana su Herat e Kandahar, molti afghani provavano a manifestare il dissenso, di notte, dai tetti delle case. Che le proteste si tengano oggi, ad appena quattro giorni dalla conquista di Kabul, vuol dire che nel Paese c’è coraggio e determinazione.

SEGNALI FORSE EFFIMERI, ma rivelatori. Oltre a chiederci come sono cambiati i Talebani in questi venti anni di guerriglia e clandestinità, dovremmo guardare a quanto è cambiata la società. I Talebani sanno che non è più la stessa. L’amnistia annunciata pochi giorni fa ha un valore di propaganda. Serve a rassicurare la popolazione e la comunità internazionale.

Ma serve anche a reclutare personale, quadri intermedi, tecnici. Coloro che dispongono di quelle competenze che i Talebani – maldestri governanti al tempo dell’Emirato e poi feroci guerriglieri – non hanno. Le parole pronunciate dal portavoce Zabihullah Mujahid riflettono un’impostazione degli ultimi anni: tutti e tutte sono invitati a contribuire alla rinascita del Paese. Arrivati al potere molto più in fretta di quanto si aspettassero, i Talebani ora si trovano sulle spalle un’intera macchina statuale.

IL GOVERNO di Ashraf Ghani, il presidente fuggitivo che solo due giorni fa è tornato a farsi sentire per giustificare la fuga e annunciare un gran rientro in patria, era corrotto, ma le istituzioni funzionavano, seppure con molte carenze. I Talebani dovranno ripristinare la macchina amministrativa e istituzionale. Per questo si appellano al contributo di tutti e per questo provano a intestarsi un’eredità che non è la loro. Quella di re Amanullah Khan, il più amato tra i re afghani.

Due anni fa, in occasione del centenario dall’indipendenza dagli inglesi, il palazzo Darul Aman, voluto da Amanullah Khan, venne illuminato con i tre colori della bandiera nazionale, la stessa sventolata nelle manifestazioni di ieri.

ERA STATO GHANI a insistere su quelle celebrazioni. Anche lui pretendeva di essere erede di Amanullah Khan, il re modernizzatore e riformista. Ieri a Jalalabad – dove solo due giorni fa i Talebani hanno sparato ai manifestanti che issavano il tricolore – sulla tomba del re si sono fatti fotografare anche gli studenti coranici. Poi il comunicato: «La nostra resistenza con il jihad ha costretto un’altra arrogante potenza mondiale, gli Stati uniti, a ritirarsi dal nostro sacro territorio». Difficile contestarlo. Ma per molti afghani dietro i Talebani c’è il Pakistan. La loro sarebbe una nuova occupazione. Tra i manifestanti, ieri, c’era chi gridava «morte al Pakistan».

DA PARTE LORO, i Talebani si dicono difensori della patria e liberatori. Convergono su Kabul, dove si susseguono le consultazioni per dare vita a un nuovo governo e a una nuova architettura istituzionale. Interlocutori privilegiati, tra quanti sono stati «collusi» con il vecchio regime spazzato via, il triumvirato formato da Hamid Karzai, Guldubbin Hekmatyar e Abdullah Abdullah, lo storico rivale di Ghani.

Noto per i suoi doppi petto di alta sartoria, spesso accompagnati da un foulard al collo o da un fazzoletto nel taschino, ormai veste solo abiti tradizionali. Ride e scherza con i Talebani, prima antagonisti, mentre un altro vecchio esponente della cosiddetta «Alleanza del nord», Amrullah Saleh, dal Panjshir invita alla seconda resistenza e chiede soldi alla comunità internazionale.

Per ora con poco successo. I soldi sono l’ultima leva di condizionamento che hanno gli Stati uniti sui Talebani. Washington ha congelato circa 9,5 miliardi della Banca centrale afghana, convincendo anche il Fondo monetario internazionale a congelare dei prestiti. Ma i Talebani non si preoccupano, spiegano due ottimi ricercatori come Graeme Smith e David Mansfield sul New York Times del 18 agosto. I soldi verranno dalle rotte commerciali e dai posti di confine. I primi a essere conquistati nella campagna militare che ha portato i Talebani a Kabul.