«Se cade Gereshk, arriveranno anche qui. Sicuro, al cento per cento». A Lashkargah, capoluogo della provincia meridionale dell’Helmand, i tonfi dei combattimenti arrivano sordi, attutiti. Si combatte al di là del fiume. Di notte e di giorno, a intermittenza. La città è risparmiata, ma la preoccupazione cresce di giorno in giorno. Aumentano anche i pazienti accolti nell’ospedale di Emergency: cure gratuite in una provincia sempre in guerra.

TRA I PAZIENTI, molti sono arrivati negli ultimi giorni da Gereshk, una sessantina di chilometri più a nord. Una cittadina strategica: è lungo il principale anello stradale. A ovest si va verso Farah, poi su a Herat, paralleli al lungo confine iraniano. A est verso Kandahar, e poi su verso Ghazni, paralleli al confine pachistano. Per gli abitanti di Lashkargah, Gereshk è una cartina di tornasole e una valvola di sicurezza. Se i Talebani attaccano il capoluogo dell’Helmand, si può scappare verso nord. Ma se Gereshk è presa, «Lashargah è fottuta».

Negli ultimi giorni a Gereshk si combatte duramente. Le comunicazioni sono saltate. I civili che non sono riusciti a scappare sono finiti in trappola. Da una parte i Talebani, dall’altra i soldati. Razzi RPG da una parte, spari dagli elicotteri dall’altra. Ogni dodici ore pare che la città passi di mano, dagli uni agli altri. Entrambi gli attori rivendicano di aver conquistato o riconquistato Gereshk. Ma nessuno scommetterebbe sulla vittoria finale del governo. I Talebani sono determinati. «Credo che la brigata di Gereshk sia quasi alla frutta, non resisterà a lungo», conferma al telefono Antonio Giustozzi, tra i più scrupolosi interpreti della galassia talebana.

Se Gereshk dovesse cedere, «la guarnigione di Lashkargah cosa farebbe?». Qui a Lashkargah i Talebani hanno fatto le prove generali. Circa un mese fa hanno provato ad attaccare la città. «Volevano verificare la reazione degli americani».

CHE SONO ARRIVATI con i rinforzi, bombardando. Una parte non scritta dell’accordo di Doha, firmato nel febbraio 2020 tra i Talebani e Washington, dice che i militanti di Haibatullah Akhundzada non possono attaccare o prendere i capoluoghi di provincia. Almeno non fino a quando gli americani sono nel Paese. Il presidente Joe Biden ha fissato all’11 settembre la data per ultimare il ritiro, ma potrebbe concludersi anche prima, a fine luglio. «I Talebani aspettano che gli americani si ritirino», sostiene Giustozzi. Preparano il terreno. A cominciare dai distretti. Su un totale di meno di 400, quaranta, cinquanta distretti sono passati di mano soltanto nell’ultimo mese e mezzo.

MA NESSUNO sa dire con precisione quanti siano. «Nei giorni scorsi, almeno 5/6 distretti sono passati ogni giorno ai Talebani», sostiene Giustozzi. La velocità del cedimento del fronte governativo «ha stupito anche loro». Il governo parla di ritirata strategica. Sta concentrando le forze intorno ai capoluoghi di provincia, abbandonando alcune basi prima occupate dagli stranieri. Ma nel Paese cresce la sensazione che i giochi siano appena cominciati. Che i Talebani abbiano la meglio. «Il ridispiegamento militare sarebbe dovuto avvenire lo scorso inverno, non ora. È un errore farlo oggi». Ancor più che nei mesi passati, si tratta anche di una guerra di propaganda. Il governo la sta perdendo: due giorni fa sono stati nominati i nuovi ministri dell’Interno e della Difesa. Nel pieno dell’offensiva talebana. E «almeno un messaggio su tre dei Talebani è un invito ad arrendersi».

TRA I SOLDATI c’è chi l’ha fatto. Spesso senza stipendio, con i canali di rifornimento bloccati perché dipendenti da un’aviazione che non c’è più, a volte i soldati hanno preferito salvarsi la vita. Alcuni distretti sono passati di mano senza sparare un colpo. Armi consegnate. Vite salve. Qualche volta lo stipendio che il governo non paga è stato assicurato dai Talebani. Un’operazione di propaganda efficace. La strategia funziona, non solo qui nel profondo sud. «A Sar-e-Pul due battaglioni da 100 uomini si sono arresi. Ancora non è chiaro cosa sia successo. Nella provincia di Faryab le forze speciali hanno subito un’imboscata. I distretti cadono, armi e veicoli passano di mano. Kunduz è sotto assedio», tanto che ieri i Talebani si sono rifatti vedere in città. Così anche a Mazar-e-Sharif, capoluogo della provincia di Balkh. «Nel nord e nord-ovest la situazione è disperata. Nel sud, i giochi sono quasi fatti».

A tenere è soprattutto il sud e sud-est. «Lì il presidente Ghani ha ancora sostegno». Anche perché la Cia ha trasferito le milizie che fanno capo alla Nds, i servizi afghani, proprio nell’area al confine con il Pakistan. Nel nord-est tengono le province di Kapisa, Parwan, Panjshir, dove è forte l’eredità del Jamiat-e-Islami, principale partito della vecchia Alleanza del nord, ora divisa. Ieri Atta Mohammad Noor, già governatore della provincia di Balk, ha invocato l’uso delle milizie da parte del governo. Ma le strutture militari, dove ci sono, non sono integrate.

«MENTRE I TALEBANI hanno una struttura integrata, molto efficiente». Continueranno a mettere sotto pressione il governo, «fino a quando il presidente Ghani non cederà». Quasi impossibile che si faccia da parte. A meno che venerdì, quando incontrerà Joe Biden alla Casa Bianca, l’omologo americano non gli faccia cambiare idea. «Tra le possibilità – nota Giustozzi – c’è anche quella di un collasso completo delle istituzioni».