I Talebani annunciano la conquista dell’ultima provincia ribelle, il Panjshir, ma i leader della resistenza, per ora sconfitti, avvertono che non è finita qui. A Kabul il portavoce dei turbanti neri, Zabihullah Mujahid, dichiara – nuovamente – chiusa la guerra e assicura che il nuovo governo è ormai pronto. Mentre a Mazar-e-Sharif un gruppo di donne protesta, chiedendo diritti e lavoro, sotto le mura dell’ufficio del governatore.

A DOHA, invece, arriva il segretario di Stato degli Usa, Antony Blinken, alla ricerca della sponda del Qatar per convincere i Talebani a lasciar partire le centinaia di cittadini statunitensi esclusi dal piano di evacuazione terminato il 31 agosto. Il presidente Joe Biden lo ha definito «un successo». In realtà lega le mani a Washington e a molte altre capitali: non possono permettersi di esercitare pressioni eccessive sui turbanti neri, se non vogliono chiudere ogni possibilità di condurre fuori dal Paese quanti «sono rimasti indietro».

Dopo venti anni di intervento militare, a rimanere indietro sono però soprattutto i 35/38 milioni di afghani che affrontano una gravissima crisi umanitaria. I Talebani la useranno per accreditarsi come interlocutori necessari degli organismi internazionali. L’obiettivo è trasformare una tragedia in un successo diplomatico. Ma la crisi – di proporzioni superiori alla loro capacità amministrativa – finirà per travolgere anche loro, insieme al popolo afghano.

PER ORA I TALEBANI festeggiano. È un vero successo l’offensiva militare condotta nella valle del Panjshir. Sarà forse temporaneo, porterà forse a nuove e più convinte forme di resistenza, ma per ora gli uomini di Haibatullah Akhundzada incassano un risultato eccezionale. Dal forte valore strategico-militare e simbolico. Per la prima volta nella loro storia, i turbanti neri sono arrivati fino a Bazarak, il capoluogo della provincia del Panjshir, cuore della resistenza agli studenti coranici già negli anni Novanta e luogo strategico per le operazioni che nel 2001 hanno portato al rovesciamento del primo Emirato islamico.

AD AGOSTO, i Talebani hanno cominciato l’offensiva militare che in soli 11 giorni gli ha fatto conquistare il Paese dal Nord proprio per impedire preventivamente l’affermazione di una «seconda resistenza». Che ieri ha perso uno dei suoi perni. Il video diffuso intorno alle 6 del mattino è emblematico: un gruppo di combattenti islamisti issa la bandiera bianca dell’Emirato proprio nell’edificio del governatore, a Bazarak. Con la conquista del Panjshir, i giochi sono fatti, «il paese è tutto nostro», celebrano i simpatizzanti del gruppo sui social. Ma il figlio – e quasi omonimo – del comandante Ahmad Shah Masud, da una località nascosta assicura che «la resistenza continua» e invoca il risveglio e la mobilitazione nazionale, nel Panjshir, a Kabul, nel resto del Paese.

Se vorrà avere un riscontro concreto, dovrà rafforzarsi. La resistenza era debole in partenza: isolata, ha scontato il mancato sostegno dei tradizionali sponsor regionali, fin qui cauti, prudenti. Per ora, c’è solo una condanna generica di Teheran. Mentre molte aree della valle sono controllate dai combattenti talebani. I comandanti rassicurano la popolazione: non dovete temere, le vostre proprietà, case e terre sono al sicuro. «Siamo un’unica nazione, veniamo in pace, non fatevi manipolare da un gruppetto di finti leader», ha aggiunto ieri da Kabul, rivolgendosi ai residenti del Panjshir, il portavoce dei Talebani, Zabihullah Mujahid.

CHE È TORNATO a dire «la guerra è finita, ora è tempo di ricostruire», per poi minacciare che ogni ribellione sarà schiacciata con la forza. Proprio mentre lo diceva, a Mazar-e-Sharif, capoluogo della provincia settentrionale di Balkh, città più «liberale» di altre e hub economico dei commerci verso l’Asia centrale, dozzine di ragazze marciavano convinte verso la sede del governatore. Chiedendo istruzione, lavoro, inclusione sociale e politica. Con uno slogan che vale in Afghanistan quanto altrove: «un governo di soli uomini puzza!». Forme di resistenza anche queste. Sporadiche, circoscritte, ma coraggiose e significative. Che i Talebani affrontano, non a caso, con crescente nervosismo e brutalità. A innervosire i Talebani, e a costringerli a posticipare il tanto annunciato insediamento del nuovo governo, era anche la resistenza nel Panjshir.

ORA CHE TUTTO IL PAESE è nelle nostre mani, dichiara Mujahid, possiamo cominciare a fare sul serio. Presto verrà insediato il governo. Il leader supremo, Haibatullah Akhundzada, è vivo. E i rappresentanti di alcuni governi regionali sono invitati alla cerimonia: Iran, Turchia, Russia, Cina. E poi il Pakistan, che i panjshirì accusano di aver contribuito all’offensiva militare nella valle, e il Qatar. Dove ieri è arrivato il segretario di Stato Usa. Antony Blinken non può che passare per vie traverse. A Kabul non c’è alcuna rappresentanza diplomatica statunitense. Nessun uomo sul campo. Per portare via i cittadini statunitensi, occorre trovare un mediatore che negozi con i Talebani. I quali useranno anche la crisi umanitaria come occasione di rafforzamento interno. Ieri Mujahid lo ha detto chiaramente: non vogliamo aiuti che impongano delle condizioni, nessuna interferenza interna. Eppure è la strategia di molti Paesi stranieri: condizionare il sostegno economico al rispetto di condizioni vincolanti.

MA PER FARLO occorrerebbe essere uniti. Nella comunità internazionale regna invece la divisione, come dimostra l’ultima riunione del consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, schiacciata sulla posizione del Pakistan e incapace di votare per una missione di monitoraggio sul campo. Sul campo per ora c’è la Croce rossa internazionale. Ieri Peter Maurer, presidente del Comitato internazionale della Croce rossa, ha incontrato a Kabul mullah Abdul Ghani Baradar e una parte della leadership del movimento. L’azione umanitaria è neutrale, imparziale e indipendente, ha ricordato. E serve a salvare vite: sono 18,4 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria; 7 milioni quanti non hanno accesso a servizi sanitari; 3,1 milioni i bambini a rischio di malnutrizione acuta. Il 13 settembre, nella riunione fissata dal segretario generale dell’Onu, la comunità internazionale dovrà dimostrare di aver capito come aiutare la popolazione senza rafforzare il governo dei Talebani.