Mentre si continua a combattere nel Nord del Paese, dove la guerriglia ha scatenato negli ultimi due giorni un’offensiva che ha tutta l’aria di essere stata preparata con cura, da Kabul arriva una buona notizia: l’accordo tra i Talebani e l’amministrazione statunitense sull’Afghanistan è chiuso, almeno «in linea di principio», assicura l’inviato del presidente Trump, Zalmay Khalilzad. Che ieri nella capitale ha sottoposto il testo all’attenzione del presidente afghano Ashraf Ghani, mentre nel resto del Paese i Talebani intensificavano la battaglia per portare a casa, oltre a un accordo che gli permette di rivendicare «vittoria», anche qualche successo militare in più.

LO STESSO KHALILZAD, nominato da Trump nel settembre 2018 con il compito di archiviare la missione militare in Afghanistan, troppo costosa in termini di danari e vite umane, ha annunciato alla tv afghana Tolo una parte dei contenuti dell’accordo. Entro 135 giorni dalla firma (rimane da capire dove avverrà, quando e alla presenza di quali “garanti internazionali”), è previsto il ritiro di 5.400 dei circa 14.000 soldati americani presenti nel Paese (ne resterebbero 6.800 come aveva detto Trump qualche giorno fa) che lascerebbero 5 basi in cui operano, non si sa per ora quali.

Sui tempi del ritiro del resto delle truppe, ancora nulla di certo (forse in 16 mesi, riferisce Mujib Mashal del New York Times), così come sulla – eventuale – evacuazione da altre basi. Secondo alcune fonti, i Talebani promettono di avviare una sorta di cessate il fuoco in 2 delle 34 province del Paese, Kabul e Parwan, ma senza la pubblicazione del testo rimangono troppi punti interrogativi, ancora.

Zalmay Khalilzad ha precisato che l’accordo deve comunque essere sottoscritto dal presidente Trump, mentre l’omologo afghano, Ashraf Ghani, chiede tempo. Gli serve a studiare l’accordo, sostiene il suo portavoce. In realtà è una mossa per tentare di ottenere quella centralità che fin qui gli è stata negata. Ghani vuole inoltre capire quanto Khalilzad abbia rispettato l’impegno iniziale: offrire ai Talebani un “pacchetto completo”, che condizionasse la soluzione al conflitto tra la guerriglia in turbante e gli americani all’avvio di un confronto esplicito tra i Talebani e il governo di Kabul, considerato illegittimo. Di fronte alla riluttanza dei Talebani a sedersi al tavolo negoziale con Kabul, l’amministrazione Usa ha forzato la mano, avviando un dialogo bilaterale con i Talebani, assicurando però che dell’accordo avrebbe beneficiato anche Ghani.

MA DOPO MESI E MESI di invocazioni per un processo di pace «condotto dagli afghani, per gli afghani», il governo di Kabul esce ridimensionato politicamente, indebolito e diviso. Come uno dei tanti attori con i quali i Talebani, forti del riconoscimento de facto di Washington, dovranno negoziare ora il futuro del Paese. Non a caso il portavoce di Ghani, Seddiq Seddiqi, ieri ha sottolineato che l’accordo sarà positivo se condurrà davvero al dialogo con i Talebani e a un cessate il fuoco. Per ora, non ce n’è traccia.

Intanto la guerra continua col suo corredo di battaglie e vittime militari e civili e con una recrudescenza degli scontri che fa pensare a un piano preciso, pensato per trattare da una posizione di forza. Attacchi sono in corso nelle province di Kunduz, Baghlan, Takhar, Badakhshan, Balkh, Farah ed Herat, riportano i media locali, e le due autostrade Kabul-Baghlan e Baghlan-Kunduz sono bloccate. I residenti di Kunduz, dove i Talebani sono tornati il 29 agosto per esserne ricacciati mezza giornata dopo, temono che la città, più volte sotto attacco in passato, torni ad essere un obiettivo della guerriglia che intanto ha assaltato in forze anche Pul-i-Khumri, capitale della provincia di Baghlan con 220mila anime.
COMMANDO ARMATI, piccoli o grandi gruppi di combattenti, attentatori suicidi: tutto l’armamentario della guerriglia è stato messo in campo con una scelta militare che ha selezionato come obiettivo praticamente tutta la fascia settentrionale del Paese. Un modo per dire che i Talebani non controllano solo il centro-Sud dell’Afghanistan ma che possono estendere il loro controllo anche a Nord dell’Hindukush, la catena montuosa che divide il Paese, oltreché geograficamente, anche lungo i due fronti di guerra: uno controllato dalla guerriglia, l’altro dal governo.

L’ATTACCO A NORD serve a dimostrare – come già in passato ma adesso con una scelta mirata che vuole pesare sugli equilibri negoziali – che il Paese potrebbe tornare sotto l’egida dell’Emirato islamico d’Afghanistan. Un progetto a cui i Talebani – accordo o non accordo – non hanno mai rinunciato.