A Washington il presidente Joe Biden è costretto a difendere di nuovo la scelta del ritiro dall’Afghanistan. A Kabul arriva il peso massimo della diplomazia talebana, mullah Abdul Ghani Baradar, mentre nelle città più periferiche i Talebani esercitano la sovranità conquistata con le armi incontrando i notabili locali e cercando sostegno per un governo che ancora non c’è. E che sarà inclusivo soltanto sulla carta. A dettare le regole del gioco sono loro, i turbanti neri, verso i quali si moltiplicano gli appelli per favorire il passaggio sicuro di quanti vogliono lasciare il Paese.

A UNA SETTIMANA DALLA PRESA di Kabul, l’aeroporto della capitale è ancora una trappola per i civili. Famiglie divise, migliaia di persone bloccate, liste di evacuazione senza referenti. Il caos. Tanto che ieri l’ambasciata degli Stati uniti a Kabul ha avvertito i cittadini statunitensi di evitare di raggiungere l’aeroporto a meno di non aver ricevuto «istruzioni individuali da un rappresentante del governo statunitense», a causa «di potenziali pericoli fuori dai cancelli».

Solo due giorni fa Biden, rivolto a «qualunque americano voglia tornare a casa», aveva assicurato: «We will get you home». Quanto alla confusione di questi giorni all’aeroporto, ha scaricato le responsabilità sugli afghani «che non erano pronti a partire» e sullo stesso ex presidente Ashraf Ghani, ora all’estero, che fino all’ultimo avrebbe creduto nella tenuta del sistema. Il presidente Usa aveva già usato lo scarica-barile per spiegare la conquista in 10 giorni del Paese da parte dei Talebani. Colpa dei soldati afghani sfaticati e codardi, aveva fatto intendere. Peccato che ne siano morti quasi 70.000 in questi 20 anni, contro i 2,500 circa statunitensi.
Con il suo discorso, il presidente Biden intendeva mandare un messaggio rassicurante: la situazione è sotto controllo. Ma il «ritiro responsabile» è un caos. E l’avvicinarsi del ritiro completo complica le cose.

L’ACCORDO FIRMATO A DOHA nel febbraio 2020 tra l’inviato speciale di Donald Trump, Zalmay Khalilzad, e il capo dell’Ufficio politico dei Talebani mullah Baradar, prevedeva il ritiro entro il 31 aprile. Biden ha confermato l’accordo ma posticipato il ritiro all’11 settembre 2021. Poi, sicuro di se stesso, aveva anticipato al 31 agosto, ora alle porte. Con i Talebani al potere e all’aeroporto scene di drammatica incertezza. Persone respinte, picchiate, accalcate, famiglie divise. Perfino Jens Stoltenberg, a capo della Nato sconfitta in Afghanistan, chiede ai Talebani di garantire passaggi sicuri. Lo chiedono anche i ministri degli Esteri del G-7, che provano ad alzare la voce: le relazioni con la comunità internazionale dipenderanno dalle azioni dei Talebani.

Scordano che per mesi hanno ripetuto loro che la presa del potere con la forza li avrebbe esclusi dal consesso internazionale. Oggi già sembrano ripensarci. E chiedono un governo inclusivo. Un ritornello inutile e controproducente se – ricorda Thomas Ruttig, direttore dell’Afghanistan Analysts Network – significa includere gli stessi personaggi che hanno fatto parte della fallimentare élite (signori della guerra + nuovi oligarchi) sostenuti dagli Stati uniti dopo il 2001.

I Talebani, che in questi anni hanno imparato l’arte della diplomazia dopo essere rimasti scottati dalle ingenuità politiche che hanno portato al rovesciamento dell’Emirato nel 2001, si dicono pronti a farlo, il governo inclusivo. Per questo a Kabul ieri è arrivato mullah Abdul Ghani Baradar, il “ministro degli Esteri” dei Talebani, a lungo nelle carceri pachistane, poi firmatario dell’accordo bilaterale con gli Usa che ha condotto al ritiro delle truppe. Rientrato pochi giorni fa a Kandahar con un volo delle forze armate del Qatar, è stato osannato dai suoi a Kabul. Sarà lui a coordinare gli sforzi dei turbanti neri per formare un nuovo governo.

GLI INCONTRI TENUTI FINORA, ha detto ieri Gulbuddin Hekmatyar, il leader del partito islamista radicale Hezb-e-Islami, già protagonista della distruzione di Kabul negli anni Novanta durante la guerra civile, erano informali. Le consultazioni vere e proprie arrivano ora. Ma contano anche gli incontri di questi giorni. Come quello tra Abdullah Abdullah, già a capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, e l’ex presidente Hamid Karzai, che hanno incontrato Abdul Rahman Mansour, il governatore talebano di Kabul, la cui sicurezza è nelle mani degli Haqqani, l’ala stragista e più oltranzista del movimento.
Negli incontri che Hekmatyar ha definito informali conta anche la disposizione sulle sedie, i simboli. Al centro ci sono le persone più autorevoli. Curioso vedere come Abdullah Abdullah, che per molti anni ha provato a ottenere la “poltrona centrale” nelle photo-opportunity, candidandosi alle presidenziali e uscendone sempre sconfitto per mano del presidente Ghani, continui a sedere di lato. Importante sì, ma non come l’ex presidente Hamid Karzai, che vanta ancora un certo appoggio e che in questi anni ha ordito una tela politica che probabilmente gli permetterà di raggranellare una fetta di potere. Tutelando gli interessi suoi e degli uomini che rappresenta.

IL GOVERNO A GUIDA TALEBANA, infatti, sarà inclusivo soltanto quel che basta a rassicurare la comunità internazionale, rispettare in linea di principio la promessa fatta in questi anni di non puntare al monopolio del potere, lasciare che alcuni gruppi di interesse possano rimanere soddisfatti della spartizione della ormai ex Repubblica islamica.
Per i civili, la transizione in corso è pericolosa, per altri è un’occasione di profitto. Per la comunità internazionale, un bel dilemma. Secondo Kristian Berg, direttore del Peace Research Institute di Oslo, le nazioni occidentali anziché chiudere le ambasciate dovrebbero sfruttare questa finestra di opportunità per orientare – almeno in parte – il futuro governo. Prima che la finestra si richiuda e che i Talebani inizino davvero a governare.
Nelle città più periferiche, intanto, organizzano grandi e piccole assemblee. A Khost, per esempio, un pezzo da novanta dell’Ufficio politico dei Talebani a Doha, il mawlawi Nabi Omari, si è rivolto ai leader tribali e ai dignitari del posto assicurandoli: avrete pace e sicurezza. A Herat sembra che i Talebani abbiano avvertito i rettori delle università di rinunciare alle classi miste.

ALCUNE VOCI NON CONFERMATE segnalano che le lezioni universitarie dovrebbero riprendere tra poche settimane, in tutto il Paese. Come ha scritto Martine Van Bijlert dell’Afghanistan Analysts Network, i Talebani stanno discutendo sul come conciliare la purezza ideologica richiesta da molti combattenti con la crescente richiesta di istruzione che proviene anche dai settori. più conservatori della società.