Il commando è formato da tre guerriglieri che alle 12.30 di ieri entrano in un albergo a Qala-e-Naw, capoluogo della provincia occidentale di Badghis che confina col Turkmenistan. L’albergo nel cuore di una cittadina il cui nome significa «casa dei venti» è una sorta di centro commerciale – con negozi, saloncini, ristoranti – da cui si può prender di mira il quartier generale della polizia e la casa del governatore. Il tiro al piccione frutta diversi morti tra le forze di polizia, almeno otto, e altrettanti feriti. Ci vogliono cinque ore perché torni la calma in città.

Anche se è la capitale della provincia di Badghis, Qala-e-Naw non è Kabul, né Herat, né Jalalabad ma per i talebani, che stanno negoziando la pace con gli americani, è probabilmente tattico colpire a macchia di leopardo. E, una volta tanto, senza far vittime civili. Si arricchisce il bollettino di guerra dell’Afghanistan – dove a dicembre si celebrano 40 anni di guerra ininterrotta – nel quale ogni giorno c’è solo l’imbarazzo della scelta e in tutti i punti cardinali: la morte dell’ennesimo americano killed in action ad esempio, il quarto dall’inizio di luglio, o la morte senza un colpevole di Nadir Shah Sahibzada, conduttore di una radio locale nella provincia orientale di Paktia.

Nadir è stato ucciso venerdi a Gardez, il capoluogo della provincia dove lavorava da tre anni nella stazione radio di Sada-e-Gardez occupandosi di società e cultura. Argomenti sensibili in un’area ad alta intensità guerrigliera. Ma è difficile dire chi sia stato a uccidere – e prima torturare come rivelano le ferite sul suo corpo – il quindicesimo giornalista ucciso in Afghanistan dall’inizio dell’anno in quello che, dice Reporter senza frontiere, è stato l’anno peggiore dal 2001 per giornalisti, fotografi e operatori.

Il contraltare di uno dei pochi successi dell’occupazione militare (oltre 1800 media) è anche il modo in cui si cerca di orientare l’opinione pubblica visto che, dalla Nato all’Iran, da Islamabad a Riad, il comparto media è uno dei più sostenuti da finanziatori generosi quanto pelosi. E dove sgarrare è sempre un rischio.

Ma se il bollettino della guerra tiene banco, quello della pace o supposta tale non è da meno. Ieri i talebani hanno messo a segno un altro colpo mediatico concedendo un’intervista per la prima volta a un quotidiano giapponese, il Mainichi Shimbun, colosso dell’informazione nipponica con oltre 3 mila dipendenti. A parlare è mullah Stanekzai, il capo dell’Ufficio politico di Doha e numero due del team che negozia con gli Usa: ha gettato il sasso nello stagno augurandosi che Tokio si proponga come garante degli accordi di pace.

In realtà Stanekzai è stato vago, chiamando in causa sia asiatici sia europei come possibili garanti, ma al Mainichi l’idea è piaciuta molto. Poi Stanekzai è andato oltre sostenendo che i tempi stanno maturando perché – raggiunto un accordo con Washington – «…varie forze all’interno dell’Afghanistan tengano discussioni sul futuro del Paese, tra cui cessate il fuoco e regime politico… Secondo la bozza che abbiamo, dopo che tutto sarà stato finalizzato, inizierà il dialogo tra afgani, compresi Kabul, politici, attivisti e tutti gli altri».

Un’apertura ma anche una chiusura: sì al cessate il fuoco e persino a un dialogo intra-afgano, anche col governo, ma solo dopo che il negoziato a due sarà concluso. Fonti del giornale nipponico sostengono che il divario di posizioni si sta riducendo tra i negoziatori ma che ancora si discute sulla tempistica del ritiro: gli Stati Uniti chiederebbero un anno e mezzo, i talebani vorrebbero sei mesi. Ipotesi. Per ora solo ufficiose.