«Ci hanno tolto tutto: la casa, la terra, le bestie, il raccolto. Perché? Perché siamo hazara». Incontriamo Mohammad («il cognome no, mi cercano») insieme ad altre due persone in un ristorante popolare di Dasht-e-Barchi, il quartiere sud-occidentale di Kabul dove vivono gli hazara, la minoranza sciita che ha ricordi drammatici del primo Emirato.

IN UNA SALETTA RISERVATA del primo piano ci sono anche Ali e Rahmatullah. Rappresentano tre delle cinque famiglie riuscite ad arrivare a Kabul. «Altre 7 sono a Kandahar. Ma 450 famiglie sfollate rimangono lì, nelle tende, con l’inverno in arrivo».
Sono le famiglie di 4 villaggi di Lora Shew, una valle nel distretto di Gizab, area al confine tra le province di Uruzgan e Daykundi. Famiglie hazara cacciate di casa. Mohammad, 35 anni, è stato nominato dai vecchi del suo villaggio come portavoce. Ha studiato. Lavorava per un’organizzazione della società civile. Ha il compito di parlare con i media, di rivendicare giustizia. «Sono 40/50 anni che viviamo lì. Ma nel primo Emirato, nel 1996, ci avevano già cacciato. Siamo tornati nel 2001. Ora ci cacciano di nuovo». Era il 23 settembre quando ha dovuto lasciare casa. «Sono venuti con i pick-up, erano circa 150, molti Talebani e tanti pashtun del luogo, con le armi, anche pesanti».

SI TRATTAVA DELL’ULTIMO ATTO di un processo più lungo: la convocazione nella sede del governo distrettuale, l’arresto. «Hanno messo in prigione per 20 giorni 4 dei nostri rappresentanti. Li hanno liberati solo quando ce ne siamo andati da casa». «Ci hanno impedito di fare foto, riprese video». Quel che rimane sono le foto di alcune famiglie in partenza. Mohammad ne mostra alcune: jeep stracariche, tappeti, utensili, sacchi di cibo. Ogni famiglia ha perso la casa e la terra. Più o meno ampia a seconda dei casi, la terra è una risorsa indispensabile.

Mohammad denuncia, ma dice di aver paura. «Mi hanno già picchiato in passato», sostiene mostrando una sua foto sul telefonino, il volto insanguinato. «Dicevano che facevo cose contro l’Islam, da stranieri; mandare le figlie a scuola, lavorare in una ong, l’attivismo sociale. Non gli andiamo a genio. Loro – continua Mohammad – stanno su una sponda del fiume, zona sempre instabile in questi 20 anni, noi siamo su un’altra, a Ghizab, dove c’erano anche le attività del Prt». I Provincial Reconstruction Team con cui le truppe straniere volevano conquistare “i cuori e le menti” degli afghani, mescolando ambito umanitario e militare.

«IN PASSATO I TALEBANI ci hanno chiesto di aiutarli nel trasferire armi, ma abbiamo rifiutato», racconta Mohammad, che è arrivato il 26 settembre a Kabul e ora cambia casa ogni settimana. «Sanno che racconto la verità. Abbiamo parlato con i media e con Unama (la missione Onu a Kabul, ndr)».

Anche Ali è arrivato nella capitale alla fine di settembre, ma per un’altra via. Viene da Tagabdar, ha una giacca blu elettrico su vestito tradizionale. 23 anni, è contadino ma ha studiato un po’ di farmacia. «Dopo che i Talebani hanno preso il potere, il governatore ci ha mandato una lettera che diceva “andate via entro 9 giorni o stupriamo le vostre mogli e figlie”». Gli anziani che sono andati a protestare si sono sentiti dire: “Qui siamo tutto, governo, corte”. Tre giorni di prigione. Poi i Talebani si sono presentati al villaggio: “Avete tre ore per lasciare tutto”». Si chiede come sia possibile. E cosa faccia la comunità internazionale. Chiede che gli stranieri facciano pressione sul governo dei Talebani per convincerli a restituire case e proprietà alle famiglie hazara sfollate. «Vivono nelle tende. Non hanno soldi per andare altrove. Gli aiuti umanitari non arrivano. E se arrivano se li prendono i pashtun, stai sicuro».

PER CHIEDERE GIUSTIZIA sono andati a incontrare, qui a Kabul, mullah Nooruddin Torabi, talebano della vecchia guardia, già a capo del ministero per la Prevenzione del vizio, ora responsabile di una Commissione per le lamentele: «Abbiamo chiesto un processo secondo la sharia, ma ci ha dato dei bugiardi». Un conto sono le dichiarazioni rassicuranti della leadership nella capitale, un altro le pratiche dei Talebani al potere nelle province. «Ci vanno giù pesante». In ballo, sostiene, c’è una terra particolarmente fertile, «dove si coltiva e produce bene», ma anche un conflitto comunitario: «I pashtun vogliono colonizzare le nostre terre». Ali ricorda anche l’uccisione di 13 persone, inclusa una bambina, nel distretto di Khidir, lo scorso 30 agosto.

RAHMATULLAH RACCONTA che in altre aree i residenti hanno ricevuto lettere ufficiali del governo provinciale talebano: «Se non ve ne andate, la responsabilità è vostra». Ma la notizia è uscita e c’è stata sufficiente pressione per evitare lo sgombero. «Torneremo in primavera», gli hanno detto. Per Mohammad, tornare a casa ora è impossibile: «Ci hanno detto che se ci proviamo ci ammazzano».