Si ha un bel dire che Anat Cohen suona musica facile e fa intrattenimento. Innegabile. Ma questa clarinettista nata a Tel Aviv e di stanza a New York ha doti vere. Echi folk brasiliani – è di Milton Nascimento il brano con cui inizia il suo concerto -, echi folk ebraici (prevalenti), un tocco di blues: ecco la sostanza della sua musica. Lirismo soffice, struggente. Nell’improvvisazione ha un approccio disteso, aperto, dolcemente passionale. Ha una voglia ingenua (e astuta nello stesso tempo) di fare musica sentimentale, come hanno fatto Chopin e Keith Jarrett. Bella ragazza di 39 anni, contenta di esibire un corpo sinuoso ondeggiando graziosamente sul palco durante gli assoli dei partner del suo quartetto. Contenta di essere femmina, di essere ebrea, di essere cittadina del mondo che si esprime con i suoni e seduce il pubblico.

Primo anno come direttore artistico di Dave Douglas a Bergamo Jazz 2016. Il capo è un musicista brillante nella tecnica della tromba, moderato, sostanzialmente arido. E all’insegna dell’aridità ha concepito una parte del cartellone. Ad esempio la prima serata al Teatro Donizetti, come sempre strapieno. Geri Allen al pianoforte solo in un recital dedicato al repertorio Motown, black music pop e dintorni. Joe Lovano, tenorsassofonista di lunga lena, a capo di un quartetto.

La pianista ha esperienze ragguardevoli alle spalle – tra cui M-Base e collaborazioni con Mal Waldron, Ornette Coleman, Charlie Haden, Charles Lloyd -, una formazione vasta, uno stile riflessivo. Rilegge Marvin Gaye, Stevie Wonder, Michael Jackson in una maniera che sarebbe perfetta in occasione di un thè delle cinque in una bella casa di una ricca famiglia della borghesia nera incline al quietismo, alla conservazione di quel che c’è. Ecco, lì sarebbe perfetta. Trascrizioni ed elaborazioni prudenti (di una certa complessità, questo va detto), scalette ascendenti e discendenti per «ornare» il tutto, perizia indubbia nel trattare con decoro lo strumento.

22vissinaperturaLouis Moholo (foto Gianfranco Rota)

Quanto a Lovano la sua sonorità è molto bella. Corposa. Idem il suo fraseggio. Un po’ Charles Lloyd, un po’ Sonny Rollins, un po’ John Coltrane, un po’ Coleman Hawkins. Affabile e ineffabile. Passione zero. Come non ammirare la fluidità disinvolta nel percorrere le strade di una classicità del «moderno» in jazz sul punto di apprezzare il soffio di novità che era tale nel 1958 circa?

La sera di Anat Cohen dopo di lei suona Kenny Barron in trio. Apre con un hit di Dizzy Gillespie, illustra con una serietà mirabile l’accademia del bop rielaborato dai pianisti con cui si è formato, i Red Garland e Tommy Flanagan. Continua con brani lenti e veloci, pacato, leggero, lavorando su un paio di ottave al massimo, accompagnato da Kiyoshi Kitagawa al contrabbasso e dal prodigioso (davvero) Johnathan Blake alla batteria. Dopo un po’ la noia regna sovrana.

Non ci si annoia ma ci si interroga al concerto pomeridiano all’Auditorium di Piazza della Libertà (di solito questi pomeriggi sono riservati agli artisti «sperimentali») tenuto dagli Atomic. Si tratta di cinque scandinavi da tempo residenti negli States. Il bebop puro e il free storico si intrecciano e si alternano alla base del discorso di Fredrik Ljungkvist (sax e clarinetto), Magnus Broo (tromba), Håvard Wiik (pianoforte), Ingebrigt Håker Flaten (contrabbasso), Hans Hulbækmo (batteria). Certi brevi duetti di Ljungkvist e di Broo con Wiik sono i momenti più stimolanti e quelli dove si sospetta che Wiik sia la «mente occulta» del gruppo con i suoi articolati contrappunti di un informale colloquiale.

Ma si resta col dubbio: saranno nuovi o soltanto un po’ confusi questi cinque vivaci, a volte frenetici, musicisti?
La serata finale del festival è la migliore, quasi ci si dimentica di tutto il resto. L’ensemble Wicked Knee è diretto dal batterista Billy Martin e comprende tre magnifici virtuosi degli ottoni: Steven Bernstein (tromba), Brian Drye (trombone), Michel Godard (tuba). Già l’organico attira. Martin mantiene una pulsazione costante con figure semplici, quel che accade intorno è magia di intelligenza, di arguzia, di felicità dell’orchestrazione. Riprendendo classici del jazz di ogni tempo da Peace di Ornette Coleman a It Don’t Mean a Thing di Duke Ellington, i tre ottoni procedono per scampoli di melodie, affettuose, intense, che si alternano prima di intersecarsi. La bellezza dei timbri incanta, così come l’originalità degli assoli, sempre cantabili, sempre coltissimi.

Finale d’amore e furore, di tribalismo e radicalità. Il quintetto di Louis Moholo-Moholo, anche lui batterista, sudafricano con lunga permanenza londinese, è il trionfo dell’energia «primitiva», nuda vita, che si associa e si esalta e si trasforma col sapere più ricercato, con il piacere della free music. Quattro «mostri» della nuova avanguardia inglese, il pianista Alexander Hawkins, il contrabbassista John Edwards, i sassofonisti Jason Yarde e Shabaka Hutchings, partecipano al rito collettivo eccitati dal leader.
I materiali tematici sono presi dalla tradizione sudafricana, riscritti, trattati dai due sax in unisoni frastagliati, ossessivi, mentre Moholo-Moholo incalza col suo percussionismo scarno, scuro, rivoltoso.

L’apertura ufficiale del festival nello spazio del Teatro Sociale in città vecchia, che poi sarebbe città alta, è toccata al curioso trio guidato dal pianista Franco D’Andrea con Daniele D’Agaro al clarinetto e Mauro Ottolini al trombone. Trio collaudato con l’aggiunta di un ospite di riguardo: il percussionista dadaista diavolesco Han Bennink. Perché curioso? Perché fa una musica finto-dixie, finto swing, in realtà una musica da camera abbastanza europeizzante che come linfa utilizza la tradizione jazzistica «antica» e «di mezzo» americana. Bennink scandisce il tempo, come sa fare lui, e non divaga più di tanto. Aggiunge qualcosa? Forse toglie. Il trio ha in mente un gioco piuttosto delicato, non intende swingare e far battere il piede dell’ascoltatore, e lo swingante Bennink, sia pure un po’ sardonico, disturba il raffinato progetto.