Al termine della prima romana dell’ultima creazione di Peter Brook Battlefield (che dall’Argentina ha iniziato una fitta tournée in diverse città italiane), la maggior parte del pubblico applaudiva entusiasta, addirittura in piedi, prima che il commissario Tronca gli consegnasse mestamente la lupa capitolina. Sul volto di qualcuno però affiorava un sorriso pensieroso. Lo spettacolo viene presentato come lo sviluppo di un brano del Mahabharatha, il poema epico indiano che racchiude l’origine e l’organizzazione di tutta la mitologia di quel paese e della sua religione.

Lo stesso Brook, con la scrittura di Jean Claude Carrière, ne aveva tratto una trentina di anni fa uno spettacolo di una intera notte (dopo Avignone si vide da noi al Fabbricone di Prato), e fu un viaggio meraviglioso e indimenticabile. Non solo per i gesti e le opere delle divinità indiane (il buono Arjuna era il nostro indimenticabile Vittorio Mezzogiorno), ma per la visionarietà lussureggiante che quegli attori producevano con i loro corpi e l’ausilio di qualche bastone.

Ora, al confronto, è tutta un’altra musica, giusto con quattro attori e un musicista. I pochi scampati ad una battaglia sanguinosa, gettano nuovamente le basi una comunità, anche apprendendo notizie sgradevoli o delittuose sul proprio passato. Ma sono destinati anch’essi ad un’altra ecatombe. Eppure, entrando tutti assieme come cadaveri nel Gange, saranno di nuovo in grado di dare luogo alla comunità vivente del futuro. Questo il percorso, molto sommario, della narrazione.

Eppure, con i suoi classici strumenti poverissimi di teatro, l’ultranovantenne Brook ci dà uno squarcio fulminante sulla vita e sulla morte, sulla continuità dell’esperienza e sul valore imprescindibile dei sentimenti. Gran teatro, in assoluta semplicità, da suonare quasi come un’orazione laicamente religiosa. Un lampo magistrale da chi di vite ne ha già attraversate tante, e non si stanca di percorrerle, da un palcoscenico all’altro.