Come ne I sonnambuli di Hermann Broch, «restii ad abbandonare le proprie certezze, i sonnambuli sono coloro che continuano a riporre una fede cieca nei valori che hanno guidato tutta la loro esistenza».

Non a valori etici, ma a ipostasi metafisiche, i sonnambuli si aggrappano ai relitti alla deriva di una Weltanschauung ormai ripudiata più con incoscienza che con coraggio ogni volta che sono chiamati a scegliere o ad agire. Questa è la nostra sinistra oggi, in Italia così come in Europa.

Dunque, non è servito a nulla consegnare il Paese alla deriva populista, lasciare che la domanda di maggiore equità, l’esigenza di rimettere in moto l’ascensore sociale non trovasse altre sponde se non le sirene populiste «egualitarie» e «sovraniste».

Erano vent’anni che il Paese si era fermato, eppure la crisi del 2008 non trovò migliore risposta se non quella rigorista di un’Europa miope, cui la sinistra nostrana non seppe contrapporre se non il miraggio della crescita, della «marea che solleva tutte le barche».

Ma le nostre navi, quelle dei più, sono rimaste in secca e solo le poche dei più avveduti hanno potuto salpare nel grande mare della globalizzazione.

In un Paese che non innova, con un sistema industriale la cui produttività esangue fatica a stare al passo coi tempi e con i competitor europei. Eppure, la sinistra è ancora lì, a lamentare il pericolo «di non appiattirsi sui 5 Stelle» e di prestare «troppa attenzione alla protezione sociale», confondendo un effetto con la sua causa.

Se c’è bisogno di protezione sociale, è perché c’è un corpo sociale frammentato e disuguale.

E di nuovo – leggetevi l’intervista a Giorgio Gori su Repubblica, ma è solo un esempio – auspicando un partito che dovrebbe essere «il punto di riferimento dei lavoratori, degli operai e degli imprenditori, dei precari e delle partite Iva, delle donne e dei giovani» in cui però vi si vede «ritornare vecchi pregiudizi anti-impresa e l’idea dello Stato imprenditore, tendenza Mazzuccato».

Come fare, quindi? Riforme, riforme, ancora riforme!

Ma davvero è questo il problema?

L’Italia, è già stato sottolineato da molti, non investe in ricerca. Se l’Italia è rimasta indietro e continuerà a rimanere indietro se non a precipitare, ora che si affaccia sul baratro, non è perché il mercato del lavoro non era abbastanza flessibile (il nostro è tra i Paesi che più è intervenuto con «riforme» in quel campo). È perché le nostre aziende investono poco.

Nel decennio prima della crisi, il tasso di crescita annuo negli investimenti in Ricerca & Sviluppo era stato del 2,6%. Dopo la crisi, era sceso all’1,7%, laddove la media OCSE era stata del 3,7% e 2,9% nei due periodi e quella della Germania del 2,6% e 4,0%.

Assenza di grandi imprese, una sola frangia di imprese competitive – quelle dedite all’export – e un ruolo passivo dello Stato: non innovatore, ma neanche regolatore. Questo è stato il nostro problema.

Ed è questo lo Stato di cui avremmo bisogno ora: non uno Stato imprenditore, ma innovatore, che investa dove serve per il futuro.

Un futuro oggi già tinto di colori funesti, con buona pace dei riformatori. Se vi era un’emergenza climatica e ambientale, oggi è ancora drammaticamente all’ordine del giorno. La pandemia ce l’ha fatta dimenticare, per un momento, ma quella è lì in agguato e sappiamo già che i suoi effetti saranno cento, mille volte quelli della pandemia. Ce lo hanno già detto, gli scienziati, non possiamo dire che «non lo sapevamo».

Così come sapevamo che una pandemia poteva arrivare, che lo sconquasso ambientale agli ecosistemi ha moltiplicato le possibilità di malattie infettive contagiose zoonotiche, che si trasmettono dagli animali all’uomo.

La pandemia avrà un altro effetto, oltre a quello di portarci sull’orlo del baratro di una crisi economica secolare. E sarà quello sulle aspettative di vita. Per chi già proiettava l’età media pensionabile a 70 anni e oltre, gli effetti letali del Covid-19 sono ora drammaticamente evidenti: nel solo 2020 perderemo tra 0,4 e 1,4 anni, nella media italiana (e nelle province lombarde più colpite si potrà abbassare fino a 3,6 anni).

Se questa è stata «poco più di un’influenza», non vogliamo immaginare cosa potrà succedere con una pandemia più devastante.

Innovare, dare più mezzi a chi vuole cimentarsi, dare più opportunità a chi non ne ha, tagliato fuori dal mercato. Con più radicalità, come deve essere una sinistra che guarda avanti e non regge solo il lumicino del grande capitale internazionale: tagliare finanziamenti e sussidi a chi si cimenta in attività economiche a emissione di gas non nulla, prendere il toro del disastro ecologico per le corna.

E apprendere le lezioni, risvegliarsi: un mondo è crollato, quello del finanz-capitalismo e delle catene di valore globali che sfruttano i costi relativi della manodopera dov’è più «cheap».

La crescita non beneficia tutti allo stesso modo e deve essere giusta ed equa.

Questa sinistra sonnambula finirà per morire – e con lei il pianeta – asfissiata dai gas emessi dallo scriteriato modello di sviluppo nel quale continua a credere.