Tra i tanti regali che Matteo Renzi porterà oggi alla scintillante serata con Barack Obama primeggiano le ultime scelte militari, alla spicciolata, di Palazzo Chigi. A cominciare dall’ultima decisione di inviare 140 soldati alla frontiera russa. «Volevamo invaderla» ha scherzato l’acuto presidente del Consiglio per rispondere all’ira russa che accusa Europa e Occidente di «atteggiamento distruttivo».

Il fatto è che sono 140 militari italiani che vanno al seguito di quattro battaglioni della Nato, in Lettonia, di fronte all’enclave di Kaliningrad. La giustificazione del segretario dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg – nomina sunt res – è stata poco veritiera: «Lì Mosca ha installato i suoi missili antimissili». È vero, ma lo ha fatto per reazione all’allargamento a est della Nato, strategia incessante perseguita dai comandi statunitensi con accodati i governi europei, che ha provocato prima la deriva in Ucraina – con il capo della Cia John Brennan in piazza nel 2013 a dirigere la rivolta – e dopo la decisione atlantica di installare in Polonia e Romania il sistema di Scudo antimissile.

Che volete che sia, perché l’arguto Renzi resta convinto di potere comunque continuare nella strategia, già democristiana e berlusconiana, di tenere due piedi in due staffe. Non associandosi magari alla richiesta di sanzioni alla Russia che avanzano – per il ruolo di Mosca in Siria – Gran Bretagna, Francia, Germania e gli Stati uniti.
Ma sempre inviando nostri soldatini di piombo nello scacchiere. Per i dividendi petroliferi di guerra e intanto continuando a fare affari con l’economia russa. È proprio l’ultimissimo dei regali in tuta mimetica, piedi a terra.

Perché poco prima, a settembre c’è stata la decisione di inviare 300 altri militari italiani a Misurata, nelle retrovie dell’assedio di Sirte (ancora non caduta). Con i quali il governo italiano «ippocrita» ha formalmente schierato i soldati a protezione di una missione sanitaria nella prima retrovia della guerra, tantopiù che siamo tra i protettori di una parte libica, il nuovo governo di Tripoli di Al Serraj.

Ma probabilmente la scelta più importante è stato l’invio, a dicembre 2015, di 450 soldati italiani, diventati poi 700, a protezione della diga di Mosul già conquistata dall’Isis e poi liberata dalle milizie sciite. La decisione torna in evidenza in queste ore, con l’inizio dell’offensiva anti-Isis, carica di maggiori rischi e insieme più che utile come gentile cadeau nella festa con Obama, dove qualche omaggio italiano prezioso va pure portato.

Aveva detto Matteo Renzi: «Noi non rincorriamo le bombe degli altri», e invece, proprio dopo la chiamata del presidente Usa, aveva annunciato da Porta a Porta l’invio a Mosul, l’area più calda dell’Iraq, delle truppe italiane. Una svolta del fino ad allora «disertore» Renzi, passata quasi sotto silenzio. Perché si trattava di «stivali a terra», truppe sul campo, quelle che l’America non mette più in questa quantità, tanto che dà l’appalto dei presidi di guerra proprio all’Italia e ad altri Paesi atlantici, tutti accodati sulla scia delle guerre aeree, dall’alto dei cieli, dei droni e dei jet americani. Dopo le gravi responsabilità degli Amici della Siria (Stati uniti, Paesi Europei, Turchia e petromonarchie del Golfo) che per più di due ani hanno destabilizzato la Siria «perché Assad se ne doveva andare», favorendo indirettamente e direttamente la nascita dello Stato islamico.

Senza dimenticare che siamo andati in armi a Mosul per difendere l’importante struttura della mega-diga. Un presidio militare per una ditta di Cesena, il Gruppo Trevi, che doveva prendere una committenza per sistemare la diga. Finalmente una chiarezza sull’«umanitario»: in armi per il made in Italy e contro la concorrenza tedesca che mirava all’appalto. La diga era diventata famosa nel 2014 per lo sventolìo di bandiere dell’Isis che annunciava la sua estensione dalla Siria alla provincia irachena di Anbar con la conquista di Mosul. Da dove infatti il «califfo» Al Baghdadi fece il suo proclama al mondo.

Una zona dunque rischiosa che, nonostante sia accerchiata dalla controffensiva partita ieri – ma da eserciti (quello turco) e milizie sciite, kurdo-irachene, con i governativi e le forze speciali Usa che rischiano di farsi la guerra fra loro – resta ancora nelle mani dell’Isis. L’Italia ha inviato centinaia di soldati a presidiare una zona così esplosiva che, a paragone, quella di Nassiriya sembrerà una passeggiata.

Il Presidente del Consiglio aveva detto «senza una strategia non c’è intervento militare», e invece almeno in Lettonia e prima in Libia e in Iraq, siamo corsi al seguito della strategia Usa. In Iraq, da dove ci siamo ritirati da anni. Mentre da Mosul già comincia la nuova fuga. L’Onu prevede che fuggiranno ancora centinaia di migliaia di persone dopo quelle del giugno 2014. Quanto a «hotspot «sicuri» per recintare la disperazione dei profughi, state tranquilli: il Sultano Erdogan propone una «safe zone» già nella Siria da lui «liberata», da poter utilizzare all’occasione come «zona cuscinetto» per occupare il territorio siriano e combattere i kurdi. Senza dimenticare la continuazione anche nostra della guerra in Afghanistan che dura da più tempo di quella del Vietnam.
Un altro sbattimento di tacchi, un altro signorsì di Matteo Renzi.