Ha ragione Sergio M.Grmek Germani, direttore del festival I Mille occhi, quando dice che alcuni film possono essere visti solo oggi, per la prima volta, nella loro piena compiutezza. Riferendosi non semplicemente a quelle pellicole che sono state capaci di passare indenni attraverso il tempo, sopravvissute al capriccio di effimere mode e al mutare di gusti, quanto piuttosto a quei titoli che trovano, alla luce del presente, una nuova collocazione all’interno della Storia.

 

 

 

 

Rivedere oggi al-Makhdu’unGli Ingannati, capolavoro firmato dal regista egiziano Tawfik Saleh nel 1972, considerato tra i dieci migliori film arabi di sempre, scatena una commozione profonda, amplificata dall’amarezza nel constatare che certe tragedie umane non conoscono la nozione di tempo e di luogo. A scuoterci non è solo la potenza emotiva del suo sguardo, tanto compassionevole a fianco degli ultimi, quanto lucido e tranchant nel mettere a fuoco lo sfondo storico e sociale, ma anche la sua sorprendente attualità. Come se solo oggi, passando in rassegna il quotidiano bollettino di morte che lista a lutto le acque del Mediterraneo (e non solo quelle), il cinema di Saleh riuscisse finalmente a rivelarsi in tutta la sua drammatica lungimiranza. Come se oggi più che mai, al posto dell’astuto Ai Weiwei di Human Flow che passa sulle rotte dei migranti a volo di drone con ineguagliabile superficialità, ci fosse bisogno di un Saleh, per poterci avvicinare alle vicissitudini di quanti, inseguendo la chimera di un futuro migliore, o di un futuro qualsiasi, perdono non solo le speranze ma la stessa vita.

 
Proiettato in Italia una sola volta nello stesso anno di produzione, in concorso alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, Gli ingannati, quasi un road-movie tratto dal romanzo dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani Uomini sotto il sole e realizzato con fondi siriani, è stato riportato alla luce a Trieste come anticipazione di una personale che il festival intende dedicare al regista alessandrino la prossima edizione.

 

 

 

 

Le immagini del film rendono conto del destino di tre uomini palestinesi, ognuno appartenente a una diversa generazione, tutti ugualmente privati delle loro terre per mano degli israeliani. Umiliati, offesi, privati di qualsiasi prospettiva, questi trovano il modo per attraversare clandestinamente il deserto, a bordo della cisterna vuota di un camion diretto in Kuwait. Solo uno degli infiniti esempi in cui il «viaggio della speranza» viene interrotto da un destino di morte,una morte atroce e beffarda. Nel tentativo di fuga dei tre protagonisti pulsa il fremito di un vitalismo proletario, una naturale tendenza alla vita, più che alla sopravvivenza, mentre nella loro tragica sorte si riconoscono i segni della mortifera avidità di una borghesia cieca e senza scrupoli. Così il cinema diventa specchio della memoria, restituisce immagini del passato per inchiodarci alle responsabilità che ci definiscono nel presente e per il futuro. L’umana pietas di Saleh, autore di altri film memorabili e senza tempo come Vicolo dei pazzi (1955) o I ribelli (1966), trova la sua epifania in una cifra neorealista misurata e composta, si potrebbe dire pudica, ma al contempo squarciante per indignazione e forza d’invettiva.

 

 

Oggi come allora, Les Dupes, come recita il titolo francese, ancora riverbera gli echi di sogni infranti. Oggi come allora, è un inno sincero e appassionato che celebra tutti «gli ingannati» e i migranti della Terra.