Un ronzio, come da elicotteri, alla fine sorvola la scena. Echi da Vietnam. Finita la stagione picaresca dei mulini a vento, altre pale ben più arrotanti, aspettano Sancho Panza. Si dipana quindi come un passaggio di consegne, una eredità non da poco, con addosso un che di militanza sessantottesca, quella che tocca al fedele scudiero del cavaliere «che raddrizza i torti» partorito dalla fantasia di Cervantes. Don Chisciotte, intrappolato nei suoi deliri, coperto da un sudario bianco quasi fosse una camicia di forza, cerca invano una via d’uscita. Non diciamo di salvezza. Un pertugio che neppure la stella cometa di Dulcinea riesce a indicare.

TRASMETTE un senso di smarrimento e di impotenza, come inutili smargiassate ansiose di protendersi sul baratro della follia, l’Ultimo Chisciotte uscito dalla vaporosa fucina del Teatro del Carretto, al debutto assoluto nei giorni scorsi a Lucca sul palcoscenico del Giglio per la regia di Maria Grazia Cipriani. Il teatro è un mondo di marionette aggrappate a esili fili. Una polverosa arena di inutili sforzi e forse anche di inutili metamorfosi. Una sequenza di agonia. Un luogo a perdere dove non serve la letteratura (le pagine del libro verranno bruciate), non serve la forza delle braccia né la disciplina cavalleresca (vecchie le regole ne prefigurano fin da subito la sconfitta), dove non fioriscono ideali e maturano sogni, dove si sfarina l’utopia stessa dell’amore cortese.

UNICO soprassalto nel mondo dei vivi, questa sì contagiosa energia, la musica. Che Cipriani non lesina come antidoto alla rinuncia. Fra Verdi (Rigoletto), Puccini (Manon Lescaut), Ravel (Bolero), The Impossible Dream, Besame mucho e Je t’aime, moi non plus i tre interpreti (Matteo De Mojana, Ian Gualdani, Stefano Scherini) provano, ciascuno a suo modo, a rialzarsi.