In Futuromania (minimum fax, traduzione di Michele Piumini) Simon Reynolds, uno dei più autorevoli critici musicai in circolazione, torna su uno dei temi che più ha interessato la sua produzione: la tensione verso il futuro della musica pop. Lo fa mettendo insieme saggi, articoli e interviste che dagli anni Ottanta in avanti delineano una sorta di memoir in cui si usa la musica elettronica «at large» (il sottotitolo recita: Sogni elettrici da Moroder ai Migos) per raccontare i vari modi in cui si è cercato di intercettare, anticipare e costruire il suono del futuro. Da I Feel Love di Giorgio Moroder filtrato nel falsetto conturbante di Donna Summer che inventano il pop alieno che mandò fuori di testa il mondo (compresi Brian Eno e David Bowie), ai paesaggi «hauntologici» di Burial e Boards of Canada; passando per il rinascimento psichedelico proposto dall’Auto-Tune, la trap e il cloud-rap e il tradimento del futuro dei Daft Punk retromaniaci di Random Access Memory fino al recente, discusso, intervento sulla cosiddetta conceptronica: elettronica intelligente, strutturata teoricamente e schierata politicamente che lascia gli spazi suburbani dei rave party per istituzionalizzarsi nel museo.

REYNOLDS SCRIVE una sorta di storia dell’elettronica suo malgrado cui ci si abbandona con piacere grazie al suo contagioso entusiasmo. Una raccolta che quasi risponde alle domande che chiudevano Retromania (2010), in cui ci si chiedeva se la musica, ormai schiacciata dall’archivio, riuscisse ancora a immaginarsi il nuovo. Reynolds ipotizza molti futuri possibili, anche vissuti con nostalgia, e lo fa usando la musica come elemento imprescindibile per capire il mondo in cui viviamo. La musica elettronica ha per molto tempo rappresentato una prospettiva nuova e alternativa dal punto di vista sonoro e aggregativo. Questa storia infatti ha tanto a che fare anche con gli slanci comunitari, i tentativi di costruire nuovi micro-mondi «anti» politici e «anti» mainstream, la cultura della droga.
L’unico dubbio che viene, leggendo, è se non si sia arrivati a un punto di saturazione anche qui. Una sorta di zavorra tra iper-produzione, accettazione delle logiche un tempo osteggiate dello spettacolo, il marketing e, banalmente, il peso della storia. Soprattutto, la contraddizione di un mondo che nasce per spiazzare (e in qualche modo spazzare via) e che si trova ad avere a che fare con le aspettative dei committenti (dai musei ai festival) e dal confronto con le pietre miliari. O forse è anche questo un rito di passaggio con cui un mondo che si è sempre percepito giovane realizza di essere diventato adulto e di avere un potere inedito e, quindi, un nuovo ruolo da giocare.