Dal 1974 il Mar Baltico è sotto la tutela della Convenzione di Helsinki per la protezione dell’ambiente marino, un trattato internazionale firmato da Danimarca, Svezia, Finlandia, dalle due Germanie, dalla Polonia e dall’Unione Sovietica. Finita la Guerra Fredda, la Convenzione è stata modificata nel 1992 con l’ingresso tra i firmatari anche dell’Unione Europea e delle Repubbliche Baltiche ed è entrata in vigore nel 2000.

Da alcuni esperti di diritto ambientale transnazionale è considerata un pietra miliare delle convenzioni sull’ambiente a livello regionale. «In effetti è stata firmata in un periodo fortunato, nei primi anni Settanta quando gli Stati ci credevano», commenta il professor Francesco Munari, ordinario di Diritto dell’UE e di Diritto transnazionale dell’ambiente all’Università di Genova e alla Luiss di Roma.

Professore, perché è importante la Convenzione di Helsinki, malgrado le condizioni del Baltico non siano ancora ottimali…

È importante per varie ragioni, intanto perché è stata una delle prime convenzioni internazionali a livello regionale ad aver introdotto una forma di cooperazione tra Stati e un meccanismo di verifica dello stato di attuazione degli obiettivi. Inoltre ha introdotto un approccio olistico alla difesa del mare: l’inquinamento delle acque deriva per l’80% dalla terra, e i pericoli maggiori non sono certo costituiti dai singoli incidenti che possono avvenire in mare alle petroliere, un inganno che è durato a lungo. Lo scorso anno le navi mercantili che hanno subito incidenti in tutto il mondo sono state circa 80. Il trasporto marittimo è una delle modalità di trasporto più sicure.

Ha funzionato la Convenzione?

Tecnicamente sì, perché, salvo la Russia, tutti i paesi firmatari sono anche membri dell’Unione Europea che può vantare la più avanzata legislazione in campo ambientale e nel caso specifico può agire come un legislatore nazionale, che non deve concordare con altri Stati il contenuto delle norme. Inoltre la convenzione di Helsinki recepisce un approccio cooperativo e non conflittuale tra gli Stati. Nel diritto dell’ambiente non ci sono buoni e cattivi, non ci si deve concentrare tanto sulle responsabilità: ormai lo abbiamo imparato dagli errori del passato. Il protocollo di Kyoto, che distingueva tra Stati a seconda dei rispettivi livelli di emissione e li costringeva ad adempiere a specifici limiti massimi, è stato un fallimento totale. Per la salvaguardia dell’ambiente servono azioni condivise tra gli Stati, il che equivale a un cambiamento radicale degli stili di vita di tutti noi, per arrivare a internalizzare i costi di tutte le attività umane. Questo lo dico sempre ai miei studenti, ma è tuttora un approccio poco percepito, a fronte di un’inaccettabile prospettiva secondo cui altri dovrebbero fare qualcosa per la tutela e la promozione dell’ambiente.

Arriveremo mai ad avere una governance unica e globale sui mari?

No, non ci arriveremo mai. Del resto, penso siano molto più efficaci le azioni unilaterali e la cooperazione regionale. È un principio peraltro introdotto anche nell’accordo di Parigi sul clima, che si basa sugli obiettivi volontari dei singoli Stati, perché in definitiva, sono gli Stati a dover agire varando politiche specifiche da applicarsi ai propri cittadini e imprese. In questa prospettiva, non escludo che gli Stati che non dovessero rispettare gli obiettivi che si sono essi stessi prefissati possano ad un certo punto rischiare di essere oggetto di contromisure da parte degli Stati adempienti.

Ritiene che le contromisure possano essere più efficaci di sanzioni decise a livello globale?

Esatto, anche perché non c’è un’organizzazione internazionale che possa imporre sanzioni: non vedo all’orizzonte una possibilità di consenso attorno a un trattato globale di questo genere, né all’istituzione (inutile) di una organizzazione mondiale dell’ambiente. Tanto più che la sua gestione sarebbe difficilissima e, come spesso avviene per queste organizzazioni, gran parte del budget sarebbe consumato per il funzionamento dell’ente, e non per il perseguimento dei suoi scopi. Del resto, già esistono istituzioni che finanziano progetti ambientali nei singoli Stati, e questa strada è certamente utile, e accolta anche nell’Accordo di Parigi sul clima. Ciò premesso, credo invece che possa essere più efficace adottare misure unilaterali anche con portata extraterritoriale da parte degli Stati o delle organizzazioni regionali che vantano una leadership nella legislazione ambientale, come la UE. Faccio un esempio: nel 2011 la Corte di Giustizia ha imposto alle compagnie aeree non europee di adeguarsi al sistema UE di scambio di quote di emissioni dei gas ad effetto serra, il sistema ETS, pena l’impossibilità di svolgere servizi di trasporto aereo in Europa. Com’è noto, l’obiettivo dell’ETS è quello di disincentivare con meccanismi economici le emissioni di gas serra, premiando quindi gli aeromobili più ecologici. La sentenza ha suscitato reazioni molto forti tra gli Stati non europei, che accusarono la UE di imporre alle loro compagnie aeree standard ambientali non condivisi a livello globale. Tuttavia, forte della sentenza, la Commissione europea ha trasferito il problema in sede ICAO (l’organizzazione internazionale per l’aviazione civile), e nel 2016 è riuscita a imporre regole globali per l’immissione in commercio di aeromobili meno inquinanti. In questo caso una misura unilaterale è riuscita a spuntare un risultato importante. Più il mondo diventa globale, più ciascuno Stato può pretendere l’applicazione di standard ambientali propri con efficacia esterna, quindi applicabili anche a imprese straniere che vogliono commerciare con tale Stato.

Ma il WTO in genere non ci sente quando si parla di standard ambientali.

Vero: la giurisprudenza delle corti WTO non è particolarmente condivisibile, anche per una strutturale inadeguatezza del sistema rispetto alla protezione dell’ambiente. Penso tuttavia che il WTO attraversi un momento di crisi, e che le sue norme per molti versi non siano al riguardo molto attuali. Tanto è vero che i più recenti accordi commerciali stipulati dalla UE con Stati terzi tengono sempre più conto delle questioni ambientali, e non condizionano affatto gli Stati a «negoziare» con la controparte la modifica del proprio diritto ambientale, che per sua natura va costantemente adeguato alle acquisizioni scientifiche e tecnologiche.