Il presidente Mattarella torna a parlare di Ilva, neppure 24 ore dopo l’irrituale, e dunque tanto più significativo incontro con i sindacati al Quirinale. Rivolto ai sindaci dell’Anci riuniti ad Arezzo, Sergio Mattarella esprime «solidarietà e vicinanza a Taranto, investita da una grave questione la cui soluzione è di vitale importanza per l’economia e il lavoro italiani». Poche parole ma sufficienti a veicolare un messaggio preciso: costi quel che costi l’Ilva non deve chiudere.

Il Colle è convinto di aver ottenuto un primo risultato soddisfacente. Dopo l’ordine sparso dei primi giorni di crisi, ora l’intero sistema, in tutte le sue articolazioni, si muove con una certa compattezza, nonostante le divisioni sullo scudo penale. Lo stesso Matteo Renzi, sinora il più critico, dice ora apertamente che «lo scudo non c’entra. Mittal ha scelto scientemente un’operazione di chiusura di Taranto». Anche se chiede comunque di rimettere lo scudo.

A Roma si respira ancora un’aria di ottimismo, sull’onda della decisione della multinazionale di sospendere le procedure di spegnimento degli altiforni e dell’annuncio dell’incontro ufficiale tra governo e vertici dell’azienda, venerdì prossimo. In realtà, anche se uno spiraglio si è effettivamente aperto dopo giorni di trattative mai interrotte pur se segrete, il momento di brindare è ancora molto lontano. La situazione resta tesissima. Ieri Mittal aveva convocato i sindacati come passo nel percorso di retrocessione dal contratto d’affitto per l’Ilva. Le confederazioni hanno declinato l’invito.

«Pur considerando infondata la procedura avviata da Mittal, l’incontro si è già svolto al ministero il 15 novembre. Riteniamo quindi di non dover partecipare all’esame congiunto del 22 novembre», spiega la segretaria della Fiom Francesca Re David che ha firmato con i segretari della Fim Bentivogli e della Uilm Palombella la lettera di risposta alla convocazione di Mittal. I tre segretari negano di aver inoltrato una richiesta di esame congiunto, come messo nero su bianco dalla multinazionale, e spiegano di non voler partecipare perché «mancano a nostro avviso i presupposti contrattuali e giuridici per la procedura di recesso».

Il vero problema, però, non è la tensione che a Taranto non accenna a scemare e neppure l’ambiguità della multinazionale. Il punto critico è che lo spegnimento dell’altoforno 2, il 13 dicembre, non era solo una scelta di ArcelorMittal ma è anche una disposizione precisa del Tribunale del riesame di Taranto. L’afo doveva essere spento già il 10 ottobre scorso, non avendo completato i lavori di messa in sicurezza ordinati dalla procura dopo l’incidente del 2015 in cui perse la vita l’operaio Alessandro Morricella, investito dalla ghisa incandescente. In settembre il Tribunale del riesame aveva accolto in parte il ricorso dei legali della multinazionale, concedendo però solo tre mesi per la messa in sicurezza dell’altoforno 2. Che quindi, non essendo stati completati i lavori, dovrà essere spento comunque il 13 dicembre.

Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa sostiene, dati alla mano, che questo sia il vero problema di Mittal, non la perdita dell’impunità: «Dal settembre 2018 Mittal non ha avuto rilievi penali per la questione ambientale. Quindi di che scudo parliamo? Mittal sta rispettando il piano ambientale. Il tema allora è l’area a caldo, che non c’entra niente con l’ambiente ma solo con la sicurezza dei lavoratori. E uno scudo sulla sicurezza non va bene». In effetti, lo spegnimento dell’afo 2 imporrebbe più prima che poi di verificare le condizioni di sicurezza anche negli altri due altiforni e probabilmente è proprio questo che ha determinato la drastica fuga di Mittal.

I renziani avevano presentato un emendamento, oltre a quello sullo scudo, per dilazionare lo spegnimento obbligato del 13 dicembre ma non è stato ammesso e non è facile che un tema così delicato e drammatico possa trovare posto in un eventuale decreto. Comunque vada a finire, dunque, chi prenderà le redini dell’Ilva, sia che si tratti di nuovo dei franco-indiani, sia che tocchi invece ai commissari in attesa che prenda forma la nuova cordata a cui sta lavorando Giuseppe Conte, dovrà fare i conti con una produzione giocoforza decurtata di un terzo e quindi anche con gli esuberi.