Negli ultimi anni, e dopo un lungo periodo di oblio, Bernard Malamud è tornato a occupare in Italia quella posizione di primo piano che gli è stata da tempo riconosciuta in patria, all’interno tanto della letteratura ebraico-americana, quanto della letteratura americana tout court. Ad assumere l’iniziativa di una ripubblicazione sistematica dell’opera di Malamud è stata minimum fax, come sempre attenta nell’accompagnare alla ricerca di nuove voci la riproposizione dei classici che meglio hanno resistito all’usura del tempo, corredati di introduzioni o saggi affidati a scrittori e critici contemporanei. A partire dal 2006 la casa editrice romana ha riproposto sette degli otto romanzi di Malamud, e le sue prime due raccolte di racconti, con prefazioni o «ricordi» di nomi importanti, italiani e stranieri: da Philip Roth a Jhumpa Lahiri; da Jonathan Lethem a Aleksandar Hemon; da Cynthia Ozick a Alessandro Piperno e Emanuele Trevi. Nel 2001, Einaudi ha invece dato alle stampe, in due volumi, una raccolta completa dei racconti, curata da Robert Giroux, editor storico di Malamud e primo a intuirne il talento e pubblicarne i libri.

Il nuovo fermento che ha circondato la produzione narrativa di Malamud – e che è stato accompagnato da un costante riscontro anche di pubblico – sfocia ora nella pubblicazione, per i Meridiani Mondadori, del primo volume della sua opera omnia Romanzi e racconti (volume I 1952-1966, pp. 1812, euro 65,00), preceduto da una introduzione di Tony Tanner – in realtà, un estratto da City of Words, il formidabile saggio sul romanzo americano dal 1950 al 1970 che rimane un modello insuperato per chiarezza di lettura ed eleganza espositiva – e arricchito da un prezioso apparato critico (biografia, note ai testi, bibliografia) affidato a un americanista di valore come Paolo Simonetti. Coprendo il quindicennio inaugurale della carriera di Malamud, dal 1952 al 1966, questo Meridiano ospita i suoi primi quattro romanzi, due dei quali, The Assistant e The Fixer, sono considerati, insieme a Dubin’s Lives, i suoi capolavori, e le due prime raccolte di racconti, accolte da giudizi in parte contrastanti (The Magic Barrel, insignito dal National Book Award e preferito dai giurati a Lolita di Nabokov, è considerato uno dei vertici dell’arte americana del racconto, mentre Idiots First, più disuguale e meno omogeneo, è stato valutato come opera di transizione).

Non mancano anche talune significative novità per quanto riguarda le traduzioni: mentre infatti sono state preservate le versioni dei due traduttori «storici» di Malamud (Vincenzo Mantovani per Il barile magico e Una nuova vita e Ida Omboni per Prima gli idioti e L’uomo di Kiev), i primi romanzi sono stati riaffidati a due eccellenti professionisti (Norman Gobetti per The Natural e Angela Demurtas per The Assistant) e vengono riproposti con due nuovi titoli italiani, ben più aderenti al senso dell’originale – rispettivamente, Il fuoriclasse e Il giovane di bottega. Anche grazie a questa operazione di «svecchiamento ragionato», del quale fanno le spese le precedenti versioni di Mario Biondi (Il migliore) e di Giancarlo Buzzi (Il commesso), il corpus delle opere scritte da Malamud nella prima metà della sua carriera emerge come un tutto armonico, consentendo, se si ha il tempo e la volontà di procedere a una lettura consecutiva, di seguire passo passo un itinerario letterario tra i più complessi e affascinanti del secondo Novecento.

La complessità di Malamud è legata in primo luogo a una visione fortemente dialettica dell’ebraismo. Sul piano formale, la coesistenza di comico e tragico, la vocazione alla parabola, l’irruzione del soprannaturale e del favolistico in un contesto di realismo a volte quasi brutale, l’uso di una lingua impastata di inflessioni yiddish rivelano la ricchezza e la profondità del rapporto con una tradizione che ha in Sholem Aleichem e I. B. Singer le sue espressioni più note, e in Chagall il perfetto equivalente pittorico.

Sul piano tematico, invece, Malamud sembra voler depurare l’ebraismo delle sue connotazioni storiche (con l’eccezione parziale del «Profugo tedesco», forse il racconto più bello e toccante di Prima gli idioti, il tema dell’olocausto non viene mai affrontato in via diretta) per trasformarlo in una condizione universale dell’uomo, affidandolo a una dimensione atemporale che travalica deliberatamente le connotazioni di razza.

Simboli viventi di questa complessa operazione sono in primo luogo Il giovane di bottega, nel quale Frank Alpine, italoamericano alla deriva, si lega a doppio filo al bottegaio ebreo Morris Bober nel tentativo di espiare la propria colpa (è stato lui stesso, insieme a un delinquente di quartiere, a rapinare il negozio di Bober), e lentamente ne assume i connotati e ne prende in carico le sofferenze, approdando alla decisione con la quale si conclude il romanzo: «Un giorno d’aprile Frank andò all’ospedale e si fece circoncidere. Per un paio di giorni si trascinò in giro con un dolore fra le gambe. Il dolore lo infuriava e lo ispirava. Dopo la Pasqua si fece ebreo». Un’analoga condizione è al centro del magnifico racconto «L’angelo Levine», tra i migliori del Barile magico, nel quale al protagonista Manischewitz, un sarto che «nel suo cinquantunesimo anno di età ebbe a patire molte disgrazie e molte umiliazioni», la possibile salvezza si presenta nella persona dell’angelo Alexander Levine, un nero che, tuttavia, ebreo lo è stato «per tutta la vita, di buon grado».

L’universalizzazione dell’ebraismo, come condizione che trova nella sofferenza e nell’umiliazione più feroci un’occasione irripetibile di riscatto e maturazione, raggiunge il suo culmine in L’uomo di Kiev (traduzione infedele e neutrale dell’originale The Fixer, in questo caso preservata per motivi che, visti gli interventi sui titoli di The Natural e The Assistant, non risultano del tutto condivisibili), il romanzo più ammirato di Malamud, vincitore, nel 1967, tanto del National Book Award quanto del Pulitzer. Nella nota al testo, Simonetti include opportunamente una lunga citazione, nella quale lo stesso Malamud ricostruisce la genesi del romanzo, e della quale val la pena di riportare almeno uno stralcio. «Ero alla ricerca di una storia che fosse accaduta in passato e che forse sarebbe potuta succedere di nuovo. Volevo la connessione storica che mi permettesse di inventare un mito. In altre parole, volevo mostrare quanto alcune delle nostre sfortunate esperienze storiche siano ricorrenti, quasi inopinate, quasi ritualistiche».

Il tema che interessa Malamud, almeno in origine, è «l’ingiustizia sulla scena americana», e le sue ricerche lo spingono prima alla ricerca di un possibile protagonista afroamericano, quindi a soffermarsi sul caso Sacco e Vanzetti, o su quello di Caryl Chessman, il celebre «bandito della luce rossa» che, condannato a morte, ottenne otto rinvii dell’esecuzione in dodici anni, che trascorse in carcere scrivendo tre autobiografie e un romanzo di notevole successo. La scelta finale cade invece sulla Russia zarista e sull’incarcerazione e il processo cui venne sottoposto Mendel Beilis, un ebreo accusato di omicidio rituale e infine assolto. Un episodio di antisemitismo che, nelle mani di Malamud, e grazie alla trasfigurazione del personaggio storico nel protagonista del romanzo, Yakov Bok, un ebreo le cui disgrazie nascono direttamente dalla volontà di rinnegare il proprio retaggio e fingersi «gentile», si trasforma in una memorabile parabola sull’assunzione delle proprie colpe, sul recupero della propria identità e sul riscatto assicurato dall’abuso e dalla sofferenza.

Nell’Uomo di Kiev la vocazione universalizzante di Malamud, la capacità, per usare le sue stesse parole, di sfruttare la «connessione storica» per inventare un mito, raggiunge il suo culmine, e il successo gigantesco ottenuto da un romanzo certo non facile, e carico di un’ottenebrante brutalità, si spiega proprio con la ricchezza di letture che esso può generare, e che ha spinto i recensori del tempo a vedere di volta in volta nella storia di Bok una metafora cristologica, una riflessione sull’Olocausto, un attacco al razzismo americano.

Questa stessa vocazione all’universale, peraltro, rappresenta un potenziale limite della narrativa di Malamud, e in particolare dei suoi romanzi. Vi è in essi, a tratti, un eccesso metaforico, un controllo della struttura e dei richiami letterari che rischia di andare a detrimento della libertà di racconto. È quanto accade soprattutto nel Fuoriclasse, dove la storia di Roy Hobbs e del suo fallimento è fin troppo mediata dai continui rimandi al mito cavalleresco, ovviamente invertito, se non negli assunti, quanto meno negli esiti; ma anche nel Giovane di bottega e perfino nell’Uomo di Kiev, riscattati peraltro rispettivamente dalla forza del milieu (non a caso, Leslie Fiedler vide in The Assistant forse il primo, vero romanzo americano sugli anni Trenta e sulla Depressione) e dall’indubbia efficacia della ricostruzione storica.

La vocazione alla parabola universale trova invece il suo perfetto correlativo nella forma del racconto, forse perché la misura breve non necessita di complesse architetture che esplicitino il percorso e il destino dei protagonisti. In testi come «L’angelo Levine» e «Il profugo tedesco», o in altri, piccoli capolavori come «La dama del lago», «Il barile magico» e «L’uccello-ebreo», Malamud raggiunge probabilmente le vette assolute della sua arte, guadagnandosi uno spazio esclusivo all’interno della grande tradizione del racconto americano e l’ammirazione incondizionata dell’altra maestra della narrazione breve che scrisse nel suo stesso torno di anni: Flannery O’Connor.

Analoga libertà compositiva Malamud riesce a raggiungere in quello che, fin dalla sua pubblicazione, è sempre stato considerato il suo romanzo minore, forse il meno riuscito. Proprio perché svincolato dalle necessità e dagli obblighi della parabola, Una nuova vita non riproduce le dinamiche interne che rendono l’opera di Malamud un unico blocco coerente. Nella vicenda – spiccatamente autobiografica – di Seymour Levin, che abbandona una vita urbana costellata di fallimenti e va a «cercar fortuna» a ovest, ritrovandosi a insegnare in un piccolo college e a confrontarsi con gli spettri del provincialismo e della deriva maccartista, la riproposizione del sogno di riscatto che accomuna tutti i protagonisti di Malamud si incrocia con il mito del West e la sua decostruzione, e con il ritratto al vetriolo di un mondo che, con il suo grigiore «tranquillizzato», risucchia il protagonista e ne mette a dura prova la vitalità.

Un quadro dell’America degli anni cinquanta nel quale, come ha avuto modo di sottolineare Jonathan Lethem, Malamud sa attingere a quella stessa, quieta disperazione che accomuna due capolavori riscoperti come Revolutionary Road, di Richard Yates, e Stoner, di John Williams.