Non è un libro a km zero, I signori del cibo di Stefano Liberti (minimum fax, pagg. 327, euro 19). È piuttosto un’inchiesta globale su come il capitalismo alimentare, non diversamente che in altri settori, passi oggi sopra la testa degli Stati e soprattutto dei consumatori. Per tesserne le fila, il giornalista (ex manifesto, penna di Internazionale e autore di documentari come A sud di Lampedusa e Container 158) ha ricostruito la filiera di alcuni prodotti di larghissima diffusione: dalla carne di maiale alla soia, passando per il tonno e il pomodoro. Lo ha fatto andando di persona nelle sedi delle big companies che organizzano e controllano la produzione e la distribuzione. Ne è venuto fuori un viaggio intorno al mondo, dalla Cina del «più grande mattatoio del mondo», da dove parte la carne di maiale che finisce in scatolette e hamburger diffusi in tutto il pianeta, all’Amazzonia brasiliana sempre più devastata dalle monocolture di soia. Il quadro che emerge è impressionante: uno spaccato del neoliberismo globalizzato, sempre più finanziarizzato e concentrato nelle mani di pochi.

POMODORI VAGANTI

Sulle tracce dei pelati che finiscono anche sulle nostre tavole, Liberti approda nella «Tomatoland uigura», la regione turcofona e musulmana insofferente al dominio cinese. Visita la Chalkis, dove hanno uno slogan: «We will tomato the world» («Pomodorizzeremo il mondo»). È qui che viene prodotto un terzo del pomodoro mondiale, quasi tutto destinato all’esportazione. Rilavorato, finirà nei ketchup della Heinz o nelle passate di Gino e Tasty Tom che si vendono in Africa e pure in Italia, stando alla Coldiretti che ha lanciato l’allarme: le importazioni di concentrato di pomodoro dalla Cina sono aumentate del 520 per cento e ammontano al 10 per cento della produzione nazionale. Il rapporto Agromafie aggiunge un particolare in più: «La maggioranza degli sbarchi avviene al porto di Salerno». Non è un caso: da lì si raggiungono facilmente le industrie di trasformazione dell’agro nocerino-sarnese, patria dell’ «oro rosso» italiano. Liberti finisce in una di queste, di fronte a un produttore nostalgico del fascismo seccato dalla concorrenza del pomodoro low cost cinese e che a sua volta esporta la salsa nell’Africa subsahariana. Nemmeno lui usa però materia prima locale. La fa arrivare dalla California, ancora una volta al porto di Salerno, la rilavora e la spedisce in Africa con il tricolore italiano dal vago sapore neocolonalista. Il giornalista la ritrova al Makola Market di Accra, la capitale del Ghana, venduta insieme alle passate della «Tomatoland uigura», anch’esse con marchio «made in Italy».

MODERNA SCHIAVITÙ

Ma non è l’unico scandalo. Il dumping europeo e cinese ha distrutto la produzione locale, molto fiorente in passato, costringendo così i giovani raccoglitori del luogo a emigrare, sfidando la morte nel deserto del Sahara e poi nel Mediterraneo. Liberti li incontra nel ghetto di Foggia, ribattezzato dagli stessi abitanti «Ghana house», dove sono finiti a raccogliere pomodori per i padroncini della Capitanata, con salari da fame e condizioni di lavoro da moderna schiavitù. Questa storia, scrive, «è una rappresentazione perfetta delle perversioni e delle contraddizioni del sistema alimentare globalizzato»: i lavoratori ghanesi finiscono in Italia a raccogliere i pomodori che poi finiranno nel loro paese a rimpiazzare quelli freschi che loro stessi producevano laggiù, in un cerchio perverso che si fa beffe di tutte le battaglie altermondialiste sulla sovranità alimentare. Liberti dimostra come in questo sistema le politiche pubbliche abbiano un ruolo decisivo, dalla Cina che decide di concentrare la produzione di carne di maiale in capo a poche società, per soddisfare i crescenti bisogni della nuova classe media e conquistare il mercato americano, all’Europa che paga gli Stati africani per garantirsi i diritti di pesca nelle loro acque distruggendo l’economia dei piccoli pescatori e, aspetto non secondario, intaccando l’ecosistema.

ESEMPI DI RESISTENZA

Per contrasto, Liberti va alla ricerca di ciò che rimane della produzione di un tempo. A San Diego in California, ormai ex capitale mondiale del tonno, accanto ai tre grandi gruppi che dominano la scena mondiale (i thailandesi di Thai union, l’italiana Bolton alimentari e i coreani di Dongwong), sopravvivono sei famiglie di pescatori che hanno deciso di resistere ai signori del cibo, continuando a rimanere in mare per settimane finché «non abbiamo pescato abbastanza per rientrare nei costi» e senza usare mezzi distruttivi per immettere sul mercato il pesce a prezzi irrisori. Il loro lavoro è considerato dai primi «commercialmente insignificante» e in quanto tale snobbato. Viceversa, per Liberti non sono superstiti di un mondo ormai superato, bensì dei «pionieri» che indicano una direzione alternativa, perché «è assurdo che un tonno pescato nel Pacifico venga congelato, bollito due o tre volte e fatto viaggiare su un aereo fino all’altro capo del pianeta per finire in una scatoletta che viene venduta a meno di un dollaro».