Era l’autunno del 1529 quando Carlo V d’Asburgo si recava a Bologna per essere incoronato imperatore da papa Clemente VII, con una solenne cerimonia nella basilica di San Petronio. L’evento si tenne il 24 febbraio del 1530, ma nei mesi precedenti la città era in pieno fermento e artisti e artigiani facevano a gara per avvicinarsi al sovrano e omaggiarlo con i migliori prodotti delle manifatture artistiche cittadine. È proprio durante questi mesi che Carlo V fece visita, in compagnia di Alfonso I d’Este, al convento di San Domenico, dove fervevano i lavori per la realizzazione a tarsia del dossale del presbiterio, ora visibile sul fondo della cappella maggiore.
Il responsabile dell’opera era il converso domenicano fra Damiano Zambelli (1480 ca – 1549), proveniente da Bergamo, ma già da un anno nella città felsinea per realizzare in commesso ligneo alcune opere per l’Ordine e che nel complesso aveva installato il suo laboratorio.
L’episodio che vide coinvolti Carlo V, Alfonso d’Este e fra Damiano è raccontato in una cronaca manoscritta, già nota alle fonti, ma solo recentemente ritrovata presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e parzialmente data alle stampe nel catalogo della mostra Fuori dai cori. Tre «quadri di tarsia» di fra Damiano Zambelli da Bergamo (fino al 5 dicembre presso il Museo Davia Bargellini, Éditions Ligéa, euro 15,00), curata da Mark Gregory D’Apuzzo, Lorenzo Mascheretti (anche autore della pubblicazione) e Massimo Medica, in collaborazione con l’Ordine dei Predicatori in occasione dell’ottavo centenario della morte di San Domenico.
Dopo un primo momento di attrito, dovuto al fatto che fra Damiano non voleva incontrare il duca d’Este a causa di una discussione avuta qualche tempo prima per questioni di gabelle, Alfonso e Carlo V furono accolti dinnanzi alle opere «così misteriosamente lavorate, e così ben colorite senza punta di pennello, ma si bene coloriti legnami», ovvero pannelli realizzati con essenze lignee differenti, per colore e texture, che venivano sagomate e perfettamente incastrate per comporre magnifici scorci architettonici in prospettiva, o paesaggi naturali, oppure solidi geometrici, o ancora, proprio nel caso del dossale bolognese, evocative teste di santi su alzate dalle forme rinascimentali.
Carlo V rimase affascinato dalla perizia tecnica di questo procedimento artistico, che si rivelava una sorta di ibrido tra pittura e scultura, e proprio allora fra Damiano gli fece dono di un quadro di tarsia raffigurante una Crocifissione. Forse proprio per ricordare quello scambio, l’artista incise anche il nome dell’imperatore in uno dei riquadri del registro inferiore del dossale, dove ancora oggi è visibile.
La piccola esposizione bolognese mostra per la prima volta al pubblico due nuovi «quadri di tarsia» di collezione privata (già Longari Arte Milano) che nascevano per stare «fuori dai cori», come dice il titolo stesso della mostra, ovvero non avevano una destinazione in contesti chiesastici, ma erano creati come oggetti per il collezionismo privato. A queste tavole riemerse solo di recente, che raffigurano una Crocifissione e una Flagellazione, è stata giustamente affiancata la Crocifissione già parte delle collezioni di Virgilio Davia almeno dal 1851, con l’idea di raccogliere manufatti affini per dimensione e destino.
Peccato solo non aver potuto vedere nello stesso ambiente anche i pezzi erranti conservati oggi nel museo del complesso monastico di San Domenico, tra i quali un pannello con Storie di San Gerolamo documentato nella collezione Zambeccari, e probabilmente nato anch’esso per la sfera privata. L’economia di mezzi purtroppo spesso porta a dover limitare i prestiti, ma nel caso di questa mostra-dossier bolognese, almeno la filologia è ben presente, e con pochi passi sotto i portici cittadini si può raggiungere la basilica e completare, idealmente, il quadro.
Fra Damiano e la sua bottega (si ricordi che in Emilia lo affiancarono Antonio da Lunigiana, fra Bernardino da Bologna, e il fratello Stefano Zambelli) portavano avanti, infatti, una produzione parallela a quella per i domenicani, fatta di pannelli di media grandezza raffiguranti temi sacri, per i quali spesso erano utilizzati più volte i medesimi cartoni, come dimostra il confronto tra le due Crocifissioni in mostra. Se per altri lavori di Zambelli sono noti dalle fonti i nomi degli artisti che avevano fornito i disegni, ed è questo il caso degli intarsi per la chiesa bergamasca dei Santi Stefano e Domenico, meno puntuale è il riconoscimento dei modelli per i pannelli erranti presentati al Museo Civico. Ma è certamente verosimile la proposta di Mascheretti che vuole riconoscere nelle Crocifissioni l’eco di invenzioni d’oltralpe disponibili nella Penisola attraverso la vasta circolazione di stampe, come nel caso delle composizioni di Albrecht Dürer o Lucas van Leyden; o, nella Flagellazione, di istanze manieriste centroitaliane come quelle traghettate in Emilia da Giorgio Vasari o dal Salviati.
Non è possibile agganciare per via documentaria una delle due Crocifissioni esposte con l’eredità di Carlo V, ma alcuni indizi portano a pensare che quella donata da fra Damiano all’imperatore possa essere la tarsia recentemente emersa sul mercato. Mascheretti è più che cauto nel formulare l’ipotesi, ma la straordinaria ricchezza del commesso ligneo, composto di molte essenze diverse, e la presenza massiccia di particolari in peltro, per rendere lo scintillio delle armature dei soldati, ben si confà a una destinazione prestigiosa. Chissà se gioca in favore di questa ipotesi anche la sua riscoperta provenienza dalla rinomata collezione Krupp von Bohlen und Halbach, famiglia di imprenditori siderurgici tedeschi legata alla dinastia imperiale germanica.