Congregazioni, confraternite, compagnie, ordini l’infinita e fantasiosa galassia in cui è compartimentata la chiesa cattolica avranno ieri sobbalzato e sussultato alle parole di papa Francesco. «I conventi vuoti non servono ad aprire alberghi e fare soldi – ha spiegato con quel suo mezzo sorriso sempre più eversivo – sono per la carne di Cristo, sono per i rifugiati». E ad ascoltarlo c’erano proprio loro: profughi, fuggitivi, sradicati, rifugiati appunto. Un’indicazione banalmente evangelica, quella di accogliere i povericristi di varia provenienza.

Ma che, se contestualizzata all’attuale sistema finanziario vaticano e localizzata nella città dove le proprietà immobiliari cattoliche sono straripanti, risuona come un’affermazione temeraria.

E’ un netto ribaltamento della strategia furiosamente commerciale con cui è stato gestito il patrimonio della chiesa. E che, soprattutto a Roma, è stata attuata nel massimo della spregiudicatezza, a volte perfino con feroce indifferenza. I fabbricati che nel passato avevano ospitato comunità religiose o attività assistenziali sono stati via via trasformati in complessi alberghieri, alcuni pregiatissimi, la gran parte adattati a ospitare quel cospicuo turismo religioso, impudicamente definito pellegrinaggio. E la commercializzazione delle proprietà vaticane ha coinvolto anche i tanti edifici o fondi agricoli ricevuti da lasciti testamentari, dai quali sono stati via via espulsi famiglie affittuarie, negozi e botteghe storiche, realtà associative collaterali. Il tutto, ovviamente, esentato dalle procedure fiscali.

Si tratta di interventi edilizi piuttosto vistosi, spesso nel cuore stesso del centro della città. Come nel caso dell’ex monastero di Santa Brigida, in piazza Farnese, o del complesso di Santa Maria dei sette dolori, nel quartiere di Trastevere: entrambi riconvertiti in alberghi prestigiosi. Oppure, come per la tenuta dell’Acquafredda, in zona Boccea, dove si stanno scacciando famiglie di agricoltori, da decenni in affitto, per edificare una clinica (e chissà cos’altro). E ancora, come nel caso delle requisizioni nel quartiere di Cinecittà, allorché il Municipio sistemò decine di famiglie senza casa in un fabbricato vuoto, che in seguito si scoprì essere di proprietà di un alto prelato che abitava in Vaticano.

E’ insomma il modello accumulativo attraverso cui si sviluppa l’economia vaticana. Se va bene, ad alimentare il circuito turistico che convoglia a Roma milioni di persone, trasportate, accompagnate, nutrite e ospitate lungo un percorso rigorosamente autarchico. Se va male, a finanziare le attività bancarie dello Ior, comprese quelle più spericolate e discutibili. Un meccanismo produttivo per consentire alle casse vaticane un afflusso monetario diretto e ininterrotto. Sotto quest’aspetto, al netto dell’indignazione, l’ammonimento di Francesco appare come un’ulteriore spallata a un sistema economico sempre più predatorio e sempre meno rivolto a principi di umanità e giustizia.

E’ una battaglia, questa di Francesco, che sembra non voler risparmiare niente e nessuno. Gli auguriamo ogni successo. E faremmo bene, forse, a smetterla di meravigliarci. E’ un papa iperpolitico che sa far politica come pochi.
Quest’offensiva «immobiliarista», a rifletterci bene, è in aperto contrasto con una delle principali imposizioni di politica economica oggi dominanti, a cui gli stessi reggenti vaticani avevano peraltro aderito. E cioè, la dismissione del patrimonio pubblico a fini speculativi. Ebbene, sostenere che tale patrimonio non è una merce ma, al contrario, un bene comune, affermare che non bisogna venderlo, bensì restituirlo a un uso sociale, riecheggia felicemente le grandi battaglie d’opposizione che nel mondo si vanno sviluppando per riappropriarsi delle risorse collettive.
Papa Francesco ci scuserà, ma quel ch’egli sostiene è oggi un’eresia, di fronte al dogma globalizzato dello sfruttamento della rendita e del profitto finanziario.

Senz’andare troppo lontano, proprio a Roma è in corso un conflitto di vaste proporzioni che contrappone una cittadinanza sempre più bisognevole di spazi pubblici, servizi sociali e centri culturali a un sistema imprenditoriale interessato a realizzare centri commerciali, alberghi, bische e casinò. Ed è così che si susseguono occupazioni, sgomberi, nuove occupazioni, nuovi sgomberi. L’amministrazione comunale, non diversamente che in altre città, sembra paralizzata, stretta tra l’obbligo istituzionale di vendere patrimonio e l’esigenza di corrispondere ai bisogni sociali. Ne deriva una goffa oscillazione tra timidissime aperture e imbarazzanti reticenze.

Eppure, un modo per uscire da questa contraddizione che sembra inestricabile ci sarebbe. Ci vuole coraggio e intelligenza. Come ha evocato, anche in questo caso, papa Francesco. Basterebbe affidare gli spazi inutilizzati a chi è disponibile a garantire quell’offerta sociale che l’amministrazione pubblica non è più in grado di assicurare. Come per esempio succede in un villino della periferia di sud-est, dove un gruppo di donne, dopo aver occupato lo stabile, ha rimesso a posto gli interni e poi ha aperto un centro d’accoglienza per vittime di violenza. Entrando di diritto, malgrado l’occupazione «illegale», nella lista comunale dei servizi sociali.
Se lo stesso schema si potesse replicare (naturalmente senza costringere nessuno a occupare) per i tantissimi fabbricati vuoti disseminati in città, per riconvertirli in servizi sociali o trasformarli in centri culturali, nei quartieri si vivrebbe sicuramente meglio, si moltiplicherebbero le occasioni di lavoro e ci si sentirebbe tutti più sicuri e sereni.

E’ un percorso che a Roma si può concretamente attuare: se si vuole uscire dalla logica del meno peggio e delle mezze misure. Non foss’altro perché è già in corso. Alle Officine Oz, al Teatro Valle, a Communia, al Cinema Palazzo e al Cinema America, alle Officine Zero, all’Angelo Mai, a Esc, a Lucha y Siesta. E in tanti altri luoghi (che diventeranno sempre di più) pieni di energia sociale e di piacere vitale.