Pablo Trapero il regista argentino premiato in vari festival internazionali, scoperto dalla Settimana della critica nel ’99 con il suo esordio Mundo Grua, e poi a Venezia nel 2004 con Familia rodante, torna in concorso alla Mostra con El Clan dimostrando ancora una volta l’originalità del suo sguardo e la potenza del racconto, film di emozioni e sensazioni forti. È stato campione di incassi alla sua recente uscita in Argentina, un milione di presenze solo nei primi giorni, un fenomeno inaspettato perché si evocano fatti avvenuti negli anni Ottanta alla fine della dittatura, un periodo ormai lontano, poco frequentato dal cinema. La dittatura lascia veleni e strascichi nel tessuto sociale anche anni dopo la sua caduta e l’Argentina è un paese che ha dovuto vivere anche altre esperienze catastrofiche come il default, ma Trapero sa raccontare nel suo film l’elemento universale della responsabilità personale che è comune a molti altri paesi e sa farlo mettendo in campo un’infinità di risvolti, di particolari quasi dimenticati, con un montaggio che ti trascina senza farti perdere il controllo della storia.«Nunca mas» (mai più) non è solo un vuoto slogan e il film sembra ribadirlo ogni momento.

Il clan criminale è esistito veramente, è quello della famiglia Puccio che dall’83 all’85 tra la fine della dittatura e l’inizio della democrazia si fece complice di sequestri, guidati dal padre, scelti preferibilmente tra ricchi amici di famiglia. Come militante dell’estrema destra era specializzato nel far «sparire» i politici al tempo della dittatura, quando il reato di sequestro era la normalità e subito dopo la dittatura ha continuato ad agire allo stesso modo. Approfittando della copertura di personaggi ai posti di comando ha continuato l’attività ma a scopo di estorsione nascondendo i sequestrati in casa e poi uccidendoli una volta ricevuto il riscatto. I ricchi desaparecidos diventano la sua fonte di guadagno per far vivere i figli nell’agiatezza e aprire le loro attività commerciali.

«Gli anni ’80 furono anni di festa» ricordava Solanas parlando del grande inganno nei confronti del suo paese, la svendita delle imprese nazionali, l’arricchimento senza coperture adeguate, la parità tra peso e dollaro che avrebbe portato al successivo default. È proprio questa oscura terra di nessuno, tra l’epoca della guerra delle Malvine e la democrazia che indaga Trapero («ì fatti sono un sintomo dell’epoca», dice), quando ancora era possibile l’impunità per molti personaggi intoccabili e ben conosciuti, come i torturatori che vivevano tranquillamente nei condomini.
Arquimedes Puccio (interpretato da un famoso attore comico, Guillermo Francella che ha interpretato anche Il segreto dei suoi occhi) impegna nella sua rete il figlio maggiore che a un certo punto emigra in Nuova Zelanda con la scusa del rugby (lo sport nazionale della classe alta come il polo), quindi coinvolge il secondogenito Alejandro (l’attore e cantante Pedro Lanzani) che dei Puma è stata una stella, molto amato dai suoi compagni. La forza del film sta nella normalità in cui vive la famiglia, nei buoni sentimenti che esprimono, tra compiti da correggere, partite da giocare, negozi da gestire, tutti tranquillamente riuniti intorno al tavolo da pranzo così come con disciplina consumata, scientifica, vengono compiuti i sequestri. E se il pubblico argentino è voluto entrare in questo placido clima familiare dell’orrore è anche perché sono state prese le distanze da quel periodo, ma non si può fare a meno di ricordare.

Quello che succede in quegli anni Ottanta è come una versione sbiadita del periodo della dittatura. A quel tempo, pur sapendo che avvenivano le sparizioni in massa, la gente faceva finta di niente così come si accendeva la musica a tutto volume per coprire le urla provenienti dai luoghi di tortura, proprio come nella cantina dei Puccio approntata per l’uso rivestita di cemento armato. Sono musiche che si ascoltavano in quegli anni (The King, Ella Fitzgerald, Charly Garcia, la rock band dei Virus), che rimbombano non come commento musicale ma a sottolineare la normalità della vita quotidiana. Ci è voluto tanto tempo per preparare El Clan a partire dalla notizia che diede la stampa nell’85 dell’arresto dell’intera famiglia al 2007 quando il regista ha cominciato a pensare al film. Gli unici elementi su cui basarsi, dice Trapero, poiché è stato impossibile entrare in contatto con i sopravvissuti della famiglia e con Arquimedes Puccio in prigione che si è sempre dichiarato innocente ed ha rifiutato di parlargli, erano le persone che avevano frequentato i Puccio, o i familiari dei sequestrati, o i giudici dei processi. «L’Argentina non tornerà mai a vivere quel periodo, dice, però i film ti pongono domande sul presente, la forza di un film è cosa succede al pubblico quando esce dalla sala».