Una tavola imbandita, con tanto di cucina con pentole e padelle, occupa una sala dello storico Palazzo Boncompagni nel centro di Bologna. Per l’artista e ambientalista palestinese Vivien Sansour si tratta di un luogo di accoglienza e condivisione. Nel 2014 Sansour ha fondato il progetto Palestine Heirloom Seed Library per la salvaguardia di antiche varietà di semi e la protezione della biodiversità che viene presentato alla V edizione di Foto/Industria – Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro dal titolo Food, curata da Francesco Zanot e organizzata a Bologna da Fondazione Mast (fino al 28 novembre). Nel catalogo-ricettario della rassegna, realizzato con la collaborazione dello chef Tommaso Melilli, il suo lavoro è associato alla ricetta della «salsa di qizha» (detta anche black tahini), un omaggio alla cucina palestinese anche attraverso la citazione della pasta di semi di nigella sativa (o cumino nero) dal caratteristico sapore dolce-amaro con un leggero retrogusto di menta.

Come nasce il progetto Palestine Heirloom Seed Library?

Nel 2014, quando ho cominciato a lavorare con gli agricoltori, una delle prime cose è stata riportare cose che erano scomparse prima sui campi e poi sulle nostre tavole. Un modo per mangiare il nostro passato, non solo parlarne come una memoria romantica e lontana. Da lì sono arrivata a creare, con la collaborazione dell’artista Ayed Arafah, questa cucina su ruote con cui andavo in giro per incontrare le diverse comunità del paese. La caricavo sulla mia auto e la rimontavo: un’occasione per parlare con la gente di cucina, biodiversità, diversità culturale ma anche della nostra storia. Spero che anche in questa sala, attraverso le piccole cose disposte sulla tavola – un cucchiaio, un piatto… – chiunque possa trovare un collegamento con la propria memoria. Infatti, il progetto è nato in Palestina, ma poi Traveling Kitchen si è espanso in diverse parti del mondo. È come se avesse messo le ali! In molti paesi ho parlato con comunità che avevano subito dei traumi, spesso popoli colonizzati a cui la storia aveva insegnato a non amare le cose che avevano. Fondamentalmente è il tentativo di creare un mondo diverso basato sull’accoglienza, in cui ci siano spazi per poter liberare i nostri cuori e poter comunicare le nostre storie. Nel libro che si trova ai due estremi della tavola ci sono i disegni della mia amica Linda Quiquivix e una poesia scritta da me in cui parlo anche di vita e morte ma da un punto di vista diverso, perché quando si lavora con le piante si percepisce che la morte non esiste nel senso che siamo abituati ad intendere. È importante notare che su questa tavola ci sono solo cucchiai e cucchiaini. Ciò è in relazione a quanto è successo a settembre scorso, quando sei prigionieri politici palestinesi sono scappati dal carcere di massima sicurezza di Gilboa scavando un tunnel con i cucchiai. Questa storia molto potente è diventata un inno alla creatività. Anche chi è oppresso e torturato, come quei prigionieri, può trovare in sé la forza per cercare la libertà scavando, magari per anni, con un cucchiaio.

Che vuol dire archivio di semi?

Inizialmente ho lavorato nel nord della Palestina, nell’area di Jenin e Nablus, adesso la sede del progetto è Battir, un villaggio nel distretto di Betlemme. Nel corso degli anni andando in giro per i villaggi e chiedendo alle persone abbiamo raccolto una collezione di semi, ma non è un archivio nel senso tradizionale. Ogni seme è conservato in un barattolo di vetro; su molti c’è il nome della persona che me li ha dati. All’inizio ero io che andavo da loro adesso è il contrario, anche perché El Beir – Arts and Seeds è diventato anche una sorta di luogo d’incontro per bere un caffè o fare due chiacchiere. Qui i coltivatori del nord hanno la possibilità di incontrare quelli del sud e scambiare le proprie conoscenze ed esperienze che, soprattutto con il cambiamento climatico, permettono di affrontare meglio le diverse situazioni.
Fotografia, poesia, video, installazione, performance: come si combinano questi diversi linguaggi nella pratica artistica?
Mi piace raccontare storie e ci sono tanti modi per farlo. Certe volte con i disegni, una poesia o magari un piatto che si cucina. Ci sono infinite possibilità che fanno parte della diversità e del potenziale immaginifico. Per il progetto sull’antico grano abu samra che significa quello scuro e bello, ad esempio, ho collaborato alla creazione di una canzone con il cantante Zaid Hilal. Tornando al libro, volevo portare anche una parte di fantasia nel mostrare come nella sua stessa creazione potessero coesistere diverse realtà: oltre a Quiquivix che ha realizzato i disegni, ci sono le fotografie di Samar Hazboun, la grafica di Daleen Saah e la consulenza di Charin Singh. Siamo tutti amici ed è stato un po’ – come la realizzazione stessa della mostra – come quando si cucina tutti insieme e ognuno porta quello che ha. Volevo un’esperienza collettiva.

La tradizione famigliare ha influenzato lo sviluppo del tuo progetto?

Sono stata molto ispirata dalle mie nonne. La mia nonna materna Jaleleh era una fantastica narratrice e l’altra, la mia nonna materna Wadee’a, era una contadina altrettanto fantastica. In arabo usiamo la parola zaree’a per indicare sia pianta che figlio, ecco io mi definisco zaree’a delle mie nonne. Nel senso che mi piace raccontare storie e dedicarmi all’agricoltura. Ma dietro ogni cosa c’è mia madre, Rima Shehadeh, che mi ha fatto capire che potevo fare molte cose che lei non aveva potuto fare. Mi ha spinto a cercare altro. In qualche modo, però, questo amore per la tavola e la cucina è un modo rivoluzionario per me, perché mia mamma mi mandava via dalla cucina che per lei significava oppressione. Questo mio amore per la cucina e la creazione di cucine è anche il sentimento di amore per mia madre. Lei è sempre qui.

C’è una ricetta della cucina palestinese che ritieni particolarmente simbolica?

Tradizionalmente la mia comunità si occupa di foraggiamento cercando piante selvatiche sulle montagne, ma è qualcosa che sta scomparendo perché siamo stati cacciati dalle nostre terre. Io sono cresciuta così con mia madre e mia nonna e uno dei miei piatti preferiti è l’akoub (Gundelia tournefortii), un arbusto spinoso selvatico simile al cardo. Ci vogliono ore per togliere le spine ma per cucinarlo occorre poco tempo. È delizioso soprattutto quando proviene dalle montagne; al giorno d’oggi c’è chi lo coltiva ma è troppo irrigato e completamente insapore. Mi piace saltato in padella solo con olio, aglio e del limone spremuto. Sul letto di morte vorrei mangiare proprio questo piatto! C’è anche un aspetto simbolico legato all’akoub, la sua perseveranza di pianta che resiste e anche la nostra che ci nutriamo di una pianta che, come noi, cresce in un ambiente difficile.