C’è chi fa fatica a parlarne, chi lascia sfumare le parole, chi ne ha fatto il centro di una ricerca artistica. Tutti però, in un modo o nell’altro cercano di capire. «Nessuno qui è completamente innocente» dice un ragazzo mentre alle spalle la Drina scorre tranquilla. Stolica significa sedia, è una parola che torna in bosniaco, in serbo e in croato: uguale. Come tante altre cose in un paese, la ex-Jugoslavia, e nella Bosnia Erzegovina dove mescolarsi era normale come fare figli insieme, vivere insieme. Eppure a un certo punto all’inizio degli anni Novanta è successo qualcosa e l’equilibrio è andato in frantumi in una guerra feroce, dominata da obiettivi come «pulizia etnica», sterminio della diversità, massacri. Ci sono molte ragioni storiche, politiche, economiche all’interno delle quali spiegare tutto questo. Al tempo stesso però ascoltando le voci di chi lo ha vissuto, ci si rende conto di uno spaesamento, di una ferita dolorosissima, che nulla era così evidente. «Pensavo di vivere in uno stato democratico, quando sono venuti a casa mia a prendermi, i paramilitari serbi perché ero musulmano, non capivo» racconta uomo. «Forse il nostro stato non era così funzionale, abbiamo nascosto i problemi sotto al tappeto ma evidentemente non ci amavamo così tanto» dice un’altra donna.

Dove sta la «verità» è difficile dirlo, di certo però il bisogno di non rimuovere, di cercare un modo per sopravvivere, e per capire appunto, è un sentimento comune. Stolica è anche il titolo del bel doc di Betta Lodoli, che in occasione del ventennale della strage di Sebrenica inizia un tour in diverse sale italiane – stasera al Kino di Roma, ore 20.30 e 22.30, presentato dalla regista, poi a Milano, Brescia e Firenze per Doc in Tour. Ed è un bene perché questo film semplice, diretto andrebbe proiettato nelle scuole, perché spiega con chiarezza e senza retorica mediatica la violenza di una guerra accaduta vicino a noi, e della quale sembra invece che si sia rimossa l’evidenza. Le persone che incontriamo nel corso del film sono molto diverse, ognuno ha perso qualcosa, figli, mariti, amici, genitori, l’infanzia come racconta una ragazza, oggi videoartista che insieme ad altri bambini ha passato quattro anni della sua vita in uno scantinato di Sarajevo. Tanto è durato l’assedio, loro studiavano, suonavano la chitarra, avevano creato un club solo per ragazzini, gli adulti ne erano esclusi.

In questo viaggio, e nel suo mettersi all’ascolto delicato, la regista ci mostra una geografia in cui ogni luogo ha un suo significato: una strada, un ponte, un negozio, raccontano storie, sofferenze, morti, il quotidiano di quegli anni che è importante non dimenticare. Ma non basta. «Io mi sento cittadina della Bosnia non serba croata o musulmana. Ora c’è la pace ma vivere è difficile» sorride tra le lacrime una ragazza.

Ecco, il presente. Come ricostruire, come andare avanti senza rimozioni, affrontando quei ricordi in una elaborazione comune? Può essere possibile? C’è chi all’inizio provava solo odio, chi si sentiva perso, chi come una coppia si è trovato e amato pur essendo di «parti» diverse. Quali non importa. Una ragazza, serba, si sente in imbarazzo per ciò che è stato fatto in nome dei serbi. Lodoli lascia parlare, sono le parole dei suoi protagonisti a dirci un sentimento, una ricerca, la fatica di ricominciare. Ognuno di loro viveva in quegli anni da «una parte» che lei non specifica, a volte se uno è serbo o croato o bosniaco arriva per caso. Ciò che ascoltiamo è la dimensione comune di questa esperienza, e la necessità, quasi una scommessa, di una «ricostruzione» che senza cancellare riesca a vincere le fratture lasciate.