«Se non volete che i nostri droni colpiscano i vostri grattacieli di vetro, lasciate lo Yemen!». Così aveva dichiarato Yahya Al Sari’, il portavoce dei ribelli yemeniti Houthi. Non era la prima volta che minacciavano la coalizione guidata da Riad contro lo Yemen, ma a luglio gli Emirati li avevano presi sul serio e ne erano usciti. I sauditi hanno invece perseverato.

Dopo l’attacco di sabato scorso alla raffineria di Abqaiq e al giacimento di Khurais, nella regione orientale, le autorità di Riad hanno mostrato in conferenza stampa resti di droni e missili, senza però fornire prove: i resti potrebbero provenire dal sud, dove le milizie Houthi hanno usato più volte questo tipo di missili cruise. Potrebbero essere made in Iran, ma non c’è certezza che siano stati lanciati dal territorio iraniano e innescati da militari della Repubblica islamica. Il fatto che siano stati prodotti in Iran non può però essere pretesto per attaccare Teheran.

Così come non avrebbe senso, per gli Houthi, attaccare la Sardegna perché qui ha sede lo stabilimento della società tedesca Rwm dove sono state prodotte molte bombe usate in questi quattro anni e mezzo dai sauditi per devastare lo Yemen. E non avrebbe senso, per i ribelli Houthi, attaccare i tanti paesi occidentali (in primis Usa e Gran Bretagna) che hanno fatto soldi a palate vendendo armamenti ai sauditi e ai loro alleati.

Eppure, i vertici di Riad avanzano il pretesto del made in Iran per chiedere al Pentagono di scatenare la sua potenza di fuoco contro l’Iran: dopo l’assassinio del giornalista Jamal Kashoggi, il principe Muhammad bin Salman preferisce delegare il lavoro sporco ai suoi alleati. Il problema non è il paese produttore degli armamenti (probabilmente l’Iran), quanto piuttosto la località da cui droni e missili sono stati lanciati e, fattore non secondario, chi li ha innescati: il know-how per il loro utilizzo è altamente tecnologico e non è detto che gli Houthi siano in grado di usarli in maniera autonoma. In attesa che gli esperti Onu portino avanti un’inchiesta internazionale, il presidente Donald Trump sembra non voler lanciarsi in un’altra guerra. Di fatto, «l’America non può fare nulla all’Iran!».

Così diceva quarant’anni fa l’Ayatollah Khomeini, durante la crisi degli ostaggi. Un’affermazione che resta vera ancora oggi: Trump ha molte frecce al suo arco, ma difficilmente potranno abbattere la Repubblica islamica. Non saranno ulteriori sanzioni a piegare un regime che è da decenni sotto embargo: che cos’altro potrebbe essere colpito dagli americani? Non potrà essere efficace un attacco militare, anche perché il paese è troppo grande e complesso dal punto di vista geografico (in termini di paludi, deserti, montagne) per essere invaso. Inoltre, gli iraniani hanno tutto il potenziale per ripagare il danno con la stessa moneta, grazie all’aiuto dei propri alleati in Iraq, in Siria, in Libano, in Afghanistan e in Yemen: potrebbero colpire le risorse energetiche e obbligare le monarchie del Golfo a chiudere i rubinetti.

In questi anni, nemmeno le operazioni di sabotaggio hanno permesso agli statunitensi (e agli israeliani) di rovesciare il regime di Teheran. Ma, soprattutto, dietro all’Iran (com’è stato anche per la Siria) c’è la Russia di Putin.

Queste osservazioni saranno ovviamente state condivise con il presidente statunitense, che non ha più al suo fianco il falco John Bolton, il guerrafondaio. Ora Trump dichiara che la guerra è «l’ultima opzione» da prendere in considerazione. Come dichiarato alla Bbc dal premier iracheno «c’è ancora tempo per la diplomazia, abbiamo bisogno di decisioni sagge, da parte di tutti». Che questa sia l’unica soluzione possibile lo sanno bene i cinesi, che in Iran continuano a investire, al punto da aver aperto una linea di credito da 400 miliardi di dollari per favorire il commercio tra Teheran e Pechino.

Una somma superiore dei 15 miliardi con cui i francesi avrebbero voluto acquistare petrolio iraniano, ma che il Tesoro statunitense non ha approvato. E senza l’ok degli americani, i francesi (e purtroppo gli europei tutti) non faranno un passo.