«Pensi che ce ne andremo? Resteremo, a Dio piacendo». Un vecchio slogan, preso a prestito da al-Adnani, il portavoce dell’Isis ucciso lo scorso anno.

Sono queste le parole pronunciate – in un arabo perfetto privo di inflessioni – dai terroristi che ieri mattina sono entrati nell’edificio del majlès, il parlamento iraniano che ha più di cent’anni e in cui sono operativi anche cinque deputati appartenenti alle minoranze religiose.

Il parlamento è il luogo simbolo della democrazia perché, per quanto il sistema politico iraniano sia lontano dal rispettare i diritti umani, vanta meccanismi di rappresentazione popolare che non hanno uguali nelle monarchie sunnite sulla sponda sud del Golfo persico.

Così com’è un luogo simbolico il mausoleo dell’Imam Khomeini, il fondatore della Repubblica islamica dell’Iran e quindi del solo Stato dove lo sciismo è religione di Stato. Un buon motivo per prenderlo di mira, per i jihadisti sunniti che considerano eretici gli sciiti giacché venerano i dodici Imam, discendenti dal profeta Maometto attraverso sua figlia Fatima.

Le autorità iraniane sembrano avere sottovalutato la minaccia del terrorismo jihadista, tant’è che l’ingresso nei mausolei non comporta il passaggio attraverso i metal detector.

Paradossalmente, a mettere in allerta l’intelligence iraniana dovevano essere le minacce proferite martedì del ministro degli Esteri saudita al-Jubeir, secondo cui l’Iran sarebbe stato «ben presto punito».

Punito per la sua arroganza perché l’Iran non si è mai piegato (nemmeno ai colonizzatori occidentali) e, mentre il resto del Medio Oriente è in fiamme, era diventato l’unico posto sicuro dove fare investimenti e persino dove andare in vacanza.

L’Iran: un paese sul piede di guerra. Così lo vorrebbero i suoi nemici – in primis i sauditi – che non vedono l’ora di scatenare su Teheran l’arsenale acquistato a Washington e a Londra. Le autorità di Teheran eviteranno però di cedere alle provocazioni.

Provocazioni che in questi anni non sono mancate, ne citiamo due: nel 2011 durante la repressione saudita seguita alla primavera nel Bahrain a maggioranza sciita dove regna la dinastia sunnita degli al-Khalifa; e nel gennaio 2016 quando i sauditi avevano decapitato e crocefisso il carismatico ayatollah Nimr al-Nimr che chiedeva maggiori diritti per la minoranza sciita nella regione orientale di al-Qatif ricca di petrolio.

Se i sauditi provocano l’Iran, mettendo pure all’indice il vicino Qatar con il consenso dell’amministrazione Trump, è perché non sanno più quali carte giocare: con la riconferma del presidente Rohani per un secondo mandato, le autorità iraniane si dedicano anima e corpo al business per rilanciare l’economia depressa da anni di sanzioni.

Il business con l’Iran è solo una questione di affari, priva di implicazioni ideologiche. E questo piace all’emiro del Qatar, all’Oman (che in questi anni ha rivestito il ruolo di mediatore tra l’Iran e Washington), al Kuwait (che non vuole la messa al bando di Doha), a una parte degli Emirati e al Pakistan (alleato storico di Riad che però non ha accettato di prendere parte alla coalizione saudita contro lo Yemen, dove divampa il colera, i morti sono oltre 12mila, 15 milioni di persone soffrono la fame e 3 milioni sono sfollati).

Le autorità della Repubblica islamica non cederanno alle provocazioni. E da buoni giocatori di scacchi potrebbero usare il duplice attentato a proprio favore: sul fronte interno coagulando attorno a sé l’opinione pubblica (e cogliendo il pretesto per reprimere il dissenso); e in politica estera perché il terrorismo di cui sono vittime gli iraniani li avvicina agli europei.

In tutto questo, l’Unione Europea potrebbe veramente fare qualcosa, sganciandosi dalle politiche del presidente Donald Trump e appoggiando Teheran. Perché, dopotutto, se l’Iran è stato attaccato è perché i suoi militari sono scesi in campo, in prima linea, per combattere l’Isis.

Se non fosse per i pasdaran del generale Soleimani che combattono a fianco delle truppe del governo a maggioranza sciita, oggi lo Stato islamico controllerebbe l’Iraq. E, di fatto, anche la Siria sarebbe finita nelle grinfie dei jihadisti se le autorità iraniane non si fossero schierate dalla parte della dinastia repubblicana (e alawita) degli Assad.