In Medio Oriente non mancano certo tensioni e conflitti. Ma quanto avvenuto nel fine settimana, dalle dimissioni del premier libanese Hariri alla campagna di arresti di principi, ministri e alti funzionari in Arabia saudita, fino al lancio del missile Burqan dallo Yemen che ha sorvolato Riyadh, ha innescato una spirale dagli esiti imprevedibili e pericolosi.

E’ clamorosa in particolare la detenzione di tanti esponenti dell’establishment saudita. «Si tratta di una campagna di arresti volta a consolidare il potere del principe ereditario Mohammed bin Salman», ci dice l’analista arabo Mouin Rabbani del think tank Shabaka e consigliere per lo European Council on Foreign Relations.

Una mossa preventiva, spiega, «perché varie forze si oppongono al potere del principe, nei settori dell’economia e della finanza e anche negli apparati di sicurezza». Siamo di fronte a qualcosa di insolito, aggiunge Rabbani, «potrebbe significare che si stanno modificando i metodi per la conquista e l’esercizio dell’autorità in Arabia saudita».

Al di là della campagna di arresti, i sauditi sentono di poter muovere determinati passi, specie in politica estera, perché ritengono di avere dietro l’Amministrazione Trump.

Senza dubbio godono di un forte sostegno americano come mai era accaduto durante gli otto anni della presidente Obama. Occorre però tenere presente che Trump è un presidente che delle volte non parla a nome neppure della sua stessa Amministrazione e che nella Casa Bianca dominano conflitti personali e punti di vista spesso contrastanti. Quando, prima dell’estate, ha messo nell’angolo il Qatar, l’Arabia saudita credeva di avere l’America dalla sua parte e poi ha scoperto che non aveva l’appoggio neppure della Casa Bianca contro Doha. Dopo qualche critica iniziale al Qatar, gli Stati Uniti hanno continuato i rapporti abituali con l’emirato.

Riyadh non ha l’appoggio pieno neanche delle altre petromonarchie nella disputa con il Qatar.

I sei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo non hanno una posizione unita. Kuwait e Oman chiedono una soluzione della crisi, si offrono di mediare, vogliono una via d’uscita. Pesa inoltre l’intervento militare in Yemen voluto con forza da Riyadh che genera incertezze negli alleati. Insomma la nuova leadership saudita affronta dissenso e differenze in casa e nella regione. Senza dimenticare che i sauditi hanno perduto la partita in Siria, Bashar Assad è ancora al comando.

Ciò nonostante Riyadh gioca forte sul tavolo libanese. Ha costretto il premier Saad Hariri a dimettersi, ha rinnovato i suoi attacchi a Hezbollah e Iran. E ora si parla con insistenza di una nuova guerra che potrebbe vedere alleati Israele e Arabia saudita.

Se queste voci sono vere allora spiegano quanto abbiamo visto in questi ultimi giorni. Una forte crisi politica in Libano può offrire un pretesto per la guerra.