Lo scorso venerdì 23 aprile è stata pubblicata dalla Gazzetta ufficiale la legge di delegazione europea (legge 22/4/2021 n.53).

Si tratta di un enorme contenitore, comprensivo di trentotto direttive, diciassette regolamenti e diciotto criteri applicativi.

Parliamo dei capitoli (quattro) che hanno a che fare con l’universo della comunicazione: 2018/1808 sui servizi media audiovisivi; 2018/1972, che istituisce il codice europeo delle comunicazioni elettroniche; 2019/789 e 2019/790 sui temi inerenti al diritto d’autore.

Non è una vicenda minore. Al contrario, c’è materia per una mezza rivoluzione.

Il nodo del copyright, ad esempio, evoca un conflitto asperrimo consumatosi con urla e strepiti un paio di anni fa davanti all’aula di Strasburgo del parlamento, dove la pressione degli Over The Top per bloccare l’approvazione del testo si infranse contro una tenace volontà politica supportata da editori, giornalisti ed operatori culturali vittime designate delle abitudini proprietarie di Google o Facebook. Ma non fu affatto una divisione lineare tra buoni e cattivi, perché l’articolato normativo – ancorché migliorato via via- manteneva qualche retrogusto potenzialmente censorio. Tuttavia, le comprensibili proteste del popolo della rete furono sussunte e sviate dagli oligarchi della rete medesima.

All’arrivo in Italia, il Mov 5stelle prima maniera con la voce di Luigi Di Maio promise una dura opposizione. Il tempo è un grande sculture, però, come scriveva la famosa scrittrice. E del vibrato no poco è rimasto. Tant’è che l’intera materia è passata al vaglio di camera e senato nel disinteresse generale. Ora, in vista dei decreti attuativi, sarebbe utile riaccendere i riflettori.

Comunque, qualcosa è già avvenuto, se è vero che un negoziato si è aperto con diversi stati, e con l’approvazione di una legge in Australia. Sanzioni e multe cominciano a fioccare. Speriamo che l’avventura non si concluda con il divieto di raccogliere articoli nelle rassegne stampa.

Tanto rumore per quasi nulla, si potrebbe dire. Del resto, il regolamento a suo tempo varato con enfasi e lustrini dalla precedente consiliatura dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni si è rivelato – al solito- forte con i deboli e debolissimo con i forti.

Veniamo, però, al punto chiave, finora sottaciuto dai e nei commenti. Nell’articolo 3 della legge di recepimento, che riguarda la direttiva SMAV, si pone esplicitamente il problema del superamento del Testo unico del 31 luglio 2005, n.177 (scrivi Gasparri) attraverso un nuovo strumento adeguato all’era digitale. In verità, il tema era da ultimo esploso dopo la decisione del settembre 2020 della corte di giustizia di Lussemburgo di dichiarare illegittimo il punto inerente agli incroci crossmediali.

La partita si sta consumando con la decisione del tribunale di Milano di respingere l’opposizione di Mediaset alla presenza di Vivendi nel suo ambito societario. Nel frattempo, vi erano stati un improvvido emendamento favorevole all’azienda berlusconiana e una decisione a tempo del tribunale amministrativo del Lazio.

Che farà ora l’Agcom, cui era demandata una scelta ormai superata dalla legge di delegazione? Tra l’altro, nella medesima direttiva si chiedono provvedimenti volti a rendere più stringente proprio il ruolo dell’autorità. E si evoca la responsabilità delle piattaforme laddove i contenuti veicolati infrangano legalità e correttezza. A questo punto la via di una revisione del Testo unico è doverosa e obbligata. Insomma, la stagione del duopolio televisivo e delle concentrazioni analogiche deve andare in soffitta. Il governo ha un diritto-dovere in più. Possibile che sia calato il silenzio su di un passaggio così dirompente per la storia italiana? Siamo al tormentone collusivo di sempre?

Naturalmente, non sfugge il peso della novella del codice delle comunicazioni elettroniche, che prende atto della definitiva prevalenza digitale.

Il mezzo e Il messaggio sono chiari: il quadro è mutato e sarebbe un atto di irresponsabile e patetico conservatorismo non voler capire.