Partiamo dalla fine della storia, quando il 30 giugno 1952 il sindaco di Milano Virgilio Ferrari riuscì ad assicurare, dopo un’infinita serie di trattative, la Pietà di Michelangelo (l’ultimo capolavoro del ‘divino’ artista, lasciato incompiuto) al suo comune, complice anche il sostegno dell’allora direttrice della Pinacoteca di Brera Fernanda Wittgens. L’opera è nota ancora oggi come Pietà Rondinini, dal nome dei loro antichi proprietari. Insieme alla Medusa conservata oggi alla Glyptothek di Monaco di Baviera l’opera è forse il pezzo più famoso di quell’antica collezione.
Dietro il nome Rondinini si celano le vicende delle diverse generazioni di questa ampia famiglia: un casato di funzionari pontifici, prelati, cardinali e, anche, collezionisti. È possibile oggi ripercorrere le vicende delle diverse generazioni, tra il Seicento e il primo Ottocento, grazie al volume di Cristiano Giometti e Loredana Lorizzo Per diletto e per profitto I Rondinini e l’Europa (Officina Libraria, pp. 300, e 35,00, 77 ill. e 33 tavv.). Nelle loro ricerche i due studiosi da tempo avevano iniziato a dissodare i fondi archivistici romani che conservano i documenti relativi alle diverse vicende di committenza e collezionismo dei Rondinini. A partire dal rinvenimento di alcuni inventari è stato possibile aprire una ulteriore finestra sul passato della casata: nelle cinque appendici che corredano il volume scorrono le statue, i dipinti, gli arazzi che arredavano le stanze di palazzi e ville.
Una mole cospicua di opere che i due capostipiti della famiglia, Alessandro Rondinini (1589?-1639) e la moglie Felice Zacchia (1593-1667), iniziarono a collezionare all’inizio del XVII secolo. Come scrisse Francesco Angeloni, umanista antiquario e a sua volta collezionista, i coniugi si intendevano perfettamente riguardo alle opere da collezionare e, anzi, condividevano i medesimi interessi «per le cose antiche». Ma non si trattava solo di antichità classiche: dalle ricerche di Giometti e Lorizzo emergono anche i gusti per la pittura caravaggesca e per i paesaggi realizzati da pittori olandesi di stanza a Roma. Attraverso lo studio delle principali figure della famiglia Rondinini, gli autori hanno ricostruito i loro contatti con alcuni dei più importanti artisti della Roma barocca e primo settecentesca, da Alessandro Algardi a Domenico Guidi, da François du Quesnoy a Paul Brill al Bamboccio.
Le stanze e i giardini delle dimore Rondinini divengono i punti d’osservazione dai quali avviare un discorso sul gusto e il collezionismo attraverso le generazioni. E sul filo delle vicende dei membri della famiglia si dipana la ricostruzione del saggio. Alla prematura perdita del marito nel 1639, Felice resse le sorti della famiglia da perfetta matrona, suscitando l’ammirazione dei suoi contemporanei per la sua erudizione e per i suoi interessi in campo artistico. Gli autori tratteggiano anche gli antefatti di questo che può essere individuato come il momento primigenio, la scaturigine delle successive vicende per i Rondinini collezionisti. Infatti il volume si apre tratteggiando le vicende dei primi esponenti delle due famiglie che si stabilirono a Roma nell’orbita della Curia. Da un lato il faentino Natale Rondinini (1540-1627), padre di Alessandro (senior), dall’altro i cardinali Paolo Emilio (1554-1605) e Laudivio Zacchia (1565-1637, padre di Felice), che dalla natìa Vezzano giunsero nella Roma di Clemente VIII Aldobrandini. Sia Natale che Laudivio avevano formato delle collezioni di opere d’arte, com’era (e sarebbe rimasto) costume per gli alti funzionari della curia.
Fu a partire da questo nucleo che i figli, i già ricordati Alessandro e Felice, sposatisi nel 1610, incrementarono le collezioni avite e diedero alla famiglia una sua ben precisa fisionomia, commissionando anche una serie di opere per alcune chiese di Roma e per le loro dimore, il Palazzo al Pozzo delle Cornacchie e la villa (allora) suburbana di Termini. Alla morte di Felice (1667), il prosecutore del ramo principale della famiglia divenne Nicolò (1623-1670), dal quale discese Alessandro Rondinini (junior) (1660-1740). Dopo una serie di dissesti finanziari da lui provocati, e a cui dovette far fronte lo zio, il cardinale Marcello Rondinini, Alessandro rientrò a Roma nel 1690. Fu la sua seconda moglie, Margherita Ambra, a dar corpo e sostanza alla nuova facies della famiglia: fu lei a comprare nel 1744 un malmesso palazzo su via del Corso, che era stato del Cavalier d’Arpino. I lavori di ristrutturazione e le migliorie, che si protrassero ben oltre la morte di Margherita nel 1755, diedero vita a una delle più notevoli dimore della Roma settecentesca. La marchesa aveva notevoli mire artistiche, che dispiegò proprio nel nuovo palazzo Rondinini al Corso: lì vennero allestiti i pezzi della collezione di famiglia, circa i quali Margherita si dimostrò ben consapevole della storia e provenienza, come si evince da un documento del 1744, in cui ella commissiona un ‘riscontro’ allo scultore Filippo della Valle e al mobiliere Carlo Aldaci.
Nella seconda metà del secolo il palazzo divenne meta di visite da parte di artisti e viaggiatori, tra i quali anche Winckelmann e Goethe. È ormai nel clima dei Lumi che si situano le vicende del figlio di Margherita e Alessandro, Giuseppe Rondinini (1725-1801). Viaggiatore e collezionista, Giuseppe tentò a più riprese di sviluppare le sue attività nel commercio (che sperava fruttuoso) di opere d’arte. Il momento che gli toccò in sorte non fu, però, per nulla propizio. Dalla moglie, l’inglese Elisabeth Kenny, non era riuscito ad avere figli, e questo comportò una serie di manovre per tentare di mantenere unita l’eredità. Queste andarono sostanzialmente a frantumarsi e, contravvenendo ai dettami di Giuseppe, gli eredi (Giuliano Capranica da un lato e Girolamo Zacchia e Veronica Origo dall’altro) iniziarono la dispersione delle opere della collezione Rondinini.
Oltre ai singoli apporti, positivi, che il volume ci consegna, è importante sottolineare l’affresco più generale che tratteggia, tra vicende biografiche, aspirazioni sociali e vocazioni mercantili nella Roma del Sei-Settecento. Il cruciale saggio che Luigi Salerno scrisse nel 1964 sul palazzo di via del Corso offriva molti materiali e piste di ricerca le cui fila sono state raccolte e arricchite (anche corrette, a volte) dal saggio di Giometti e Lorizzo che, con acribia e pazienza, hanno percorso e ricucito le vicende e i gusti del ‘clan’ Rondinini.