A due anni di distanza dalla tentata pulizia etnica ai loro danni, i Rohingya aspettano ancora giustizia e rifiutano di tornare nel Rakhine, lo Stato birmano da cui sono stati espulsi con brutalità nell’estate del 2017. Allora, 750mila Rohingya sono stati costretti ad attraversare il fiume Naf, confine con il Bangladesh, e si sono stabiliti nel distretto bangladese di Cox Bazar, nel sud-est, dove attualmente vivono almeno un milione di rifugiati, inclusi coloro scappati in precedenti periodi. Ieri è ufficialmente iniziato l’ultimo piano di rimpatrio (il primo accordo è del novembre 2017), deciso dai governi di Myanmar e Bangladesh.

Riguarda 3.450 Rohingya, i cui nomi sono finiti (a volte, pare, senza che gli interessati ne sapessero nulla) in una lista di circa 22mila persone inviata dal governo del Bangladesh – riferisce il Dhaka Tribune – al ministero degli esteri del Myanmar, che ne avrebbe selezionate 3.450.

La lista è stata poi inviata all’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati che ha condotto, insieme alle autorità locali, un sondaggio per verificare la reale disponibilità dei Rohingya al rimpatrio.

Finora, però, nessuno ha accettato: ieri sono rimasti vuoti gli autobus in attesa di fronte ai campi, vuoti i centri di transito allestiti dal governo bangladese, vuoti i «centri di ricezione» preparati dalle autorità birmane nello Stato del Rakhine, pronti a ricevere fino a 300 persone al giorno, prima del trasferimento in un campo temporaneo a Hla Poe Kaung e poi nei villaggi di origine.

I Rohingya chiedono che venga loro riconosciuta la piena cittadinanza nel Myanmar – negata da una legge del 1982 – e tutti i diritti fin qui negati. Ma le autorità birmane non hanno cambiato atteggiamento: «Con l’esercito del Myanmar più forte di prima e senza rimorsi, rimane insicuro per chiunque tornare nel Rakhine», ha dichiarato Nicholas Bequelin, direttore regionale per l’Est e per il Sud-est asiatico di Amnesty International.

Il Commissario bangladese per il rimpatrio e il sostegno ai rifugiati, Abul Kalam, spera però «che nei prossimi giorni qualcuno cambi idea».