Il primo scatto arriva a 14 anni, ma si tratta di una fotografia souvenir delle vacanze in Egitto. Poi, per Marco Di Lauro, nato a Milano nel 1970 (vive a Roma dal 2000) le cose non sono più filate così lisce. Nonostante gli studi di letteratura e storia dell’arte tra Italia e Stati Uniti, cresce prepotente una vocazione al fotogiornalismo. E così, Marco parte con la sua Nikon per documentare le storie dei bambini abusati e abbandonati in India, poi è la volta degli abitanti delle Ande e del racconto della loro povertà, infine le guerre, i bombardamenti, il Kosovo e tutte gli altri conflitti che infestano il mondo intero. È lui a raccontare i rischi del suo mestiere e l’escalation cruenta che costringe alla conta dei colleghi uccisi.
Quali sono i rischi reali per un fotoreporter e come si affrontano?
Sono molteplici. Oltre a quelli tipicamente associati alla professione, come il morire o venire feriti durante i combattimenti, il fenomeno dei sequestri di persona e l’uccisione deliberata di un giornalista che svolge il proprio lavoro – come è accaduto in Siria a Marie Colvin e Rémi Ochlik – sono aumentati. I giornalisti sono diventati una merce di scambio e i rapimenti sono all’ordine del giorno per motivi che variano da quello puramente a scopo di estorsione a quello ideologico. Secondo il Committee to Protect Journalist nel 2013 sono stati uccisi 37 giornalisti, 1005 hanno perso la vita dal 1992 di cui 593 impunemente e 456 colleghi sono in esilio dal 2008. Statistiche che fanno capire la vastità del problema per una categoria classificata dalla Convenzione di Ginevra come «protetta» e «non combattente». I rischi si possono minimizzare con una preparazione meticolosa, attraverso un’analisi attenta del tema che si vuole raccontare e un’estesa conoscenza del territorio. Fondamentale, è affidarsi ad autisti e interpreti capaci, seri e soprattutto onesti, avere un training medico adeguato e aver fatto dei corsi di formazione sulla gestione del rischio in zone di guerra. Lavorare per una grossa agenzia internazionale come Getty Images garantisce un supporto formativo, logistico e finanziario. Esistono dei requisiti minimi che l’agenzia richiede ai suoi fotografi, prima di permettere loro di partire per una zona di conflitto. Sono vincoli e «barriere di protezione» che i giovani freelance non hanno: nel momento in cui decido di coprire un paese in guerra devo dimostrare ai miei editor di Getty Images di avere le conoscenze necessarie e un network locale di supporto sul posto. La copertura di una zona in guerra nel mio caso, alla fine, è il risultato di un lavoro di gruppo.
In quali situazioni ti sei sentito in pericolo?
Ho documentato diversi conflitti come quello in Kosovo, Afghanistan, Iraq, il conflitto Israelo-Palestinese, nei paesi dell’Africa e, in alcuni casi, sono rimasto in quei luoghi per molto tempo. Le situazioni in cui mi sono sentito in pericolo sono state centinaia ma ricordo, in particolare, la battaglia per la conquista di Fallujah in Iraq.
Sono arrivato in Iraq, a Camp Fallujah, il 28 ottobre 2004. Era una delle più grosse basi militari americane e si trovava a sette chilometri da Fallujah, città roccaforte della guerriglia in Iraq. Il campo limitrofo in cui ero alloggiato, Camp Owens, ospitava due battaglioni dei marines di circa 1700 soldati appena arrivati dalle Hawaii dove erano normalmente stanziati: tutti ragazzini dai 18 ai 24 anni, per la maggior parte mandati per la prima volta in guerra. Ho documentato i preparativi per l’attacco alla città di Fallujah: marines che si allenavano alle tecniche di combattimento urbano, che dormivano, mangiavano, pregavano. Osservavo questi ragazzoni – muscolosi eppure fragili e inconsapevoli dell’orrore della guerra, mutare man mano che il giorno dell’attacco si avvicinava, vedevo nei loro occhi quello che io stesso provavo: paura e incertezza rispetto a cosa sarebbe successo, come sarebbe stato e se sarei sopravvissuto. Ricordo il generale dei marines che, accogliendo noi giornalisti e fotografi appena arrivati, ci disse: «Benvenuti, siete qui per una delle battaglie più importanti della storia dei marines dopo il Vietnam e la presa di Kuwait City. Voglio che sappiate che alcuni di voi non torneranno a casa, ma vi promettiamo che nessuno sarà lasciato sul campo: i vostri corpi saranno riportati alla base ad ogni costo e non ci saranno prigionieri di guerra». Mi si gelò il sangue.
Il giorno della battaglia i mezzi anfibi di assalto ci caricarono nel pieno della notte portandoci fino a quello che i marines chiamavano «il ponte», una barriera di detriti costruita dai guerriglieri per bloccare una delle strade di ingresso alla città. Gli ingegneri che avrebbero dovuto far saltare la barriera fallirono e i mezzi anfibi ci lasciarono nel punto sbagliato, troppo lontani dal «ponte», così che rimanemmo allo scoperto. Quando scesi dal mezzo non potevo credere ai miei occhi: nonostante fosse buio il cielo era illuminato dalle esplosioni di ogni tipo, i guerriglieri ci sparavano addosso e, inoltre, aveva iniziato a piovere. Strisciammo per terra, su un terreno fangoso e appiccicaticcio, per circa tre ore, in cui ebbi tutto il tempo di chiedermi cosa ci facessi in una situazione del genere e di pentirmi di non aver aspettato il mattino dopo. Ma aspettare, avrebbe significato perdere una parte cruciale della storia.
Cosa servirebbe per garantire maggiore sicurezza ai fotoreporter?
Una guerra di per sé non ha certezze né logica, nessun ordine, nessuna sicurezza. Tuttavia, chi decide di fare il fotoreporter deve conoscere bene i rischi che corre e come «minimizzarli». Si dovrebbe, inoltre, far sapere alle varie fazioni impegnate nel conflitto che il mondo non tollererà più giornalisti uccisi impunemente; bisognerebbe istituire una Corte Internazionale per perseguire le violenze nei confronti dei giornalisti come un crimine contro l’umanità o un crimine di guerra. Aidan Sullivan, Vice President di Getty Images e colui che ha creato e guida il team di Reportage by Getty Images, è stato uno dei promotori di una campagna che ha questo obiettivo di sensibilizzazione, A Day Without News?.
Cos’è cambiato in questo mestiere rispetto agli inizi? C’è una maggiore solitudine?
L’avvento della fotografia digitale ha reso possibile questa professione a un numero maggiore di giovani fotografi. Per quanto mi riguarda la solitudine non ha mai fatto parte di questo lavoro e, forse, mi sento più solo una volta a casa, con i fantasmi dei morti che ho visto mentre lavoravo. Ma trovo che ci siano molti più fotografi oggi che sono soli nel fare questo mestiere, senza il supporto delle organizzazioni che poi acquistano e utilizzano le loro immagini: è più facile comprare le foto di un giovane freelance che è andato in Siria a rischiare la vita per conto proprio piuttosto che fornirgli il supporto necessario per potersi recare laggiù….Così, non ci sono responsabilità.