Vivere e morire nella spazzatura, ultimi tra gli ultimi, in un paese che ovviamente vanta uno dei tassi di crescita più brillanti dell’Africa e del mondo intero. È la tragica sorte toccata alle vittime – il bilancio è salito nella giornata di ieri a 65 morti, in maggioranza donne e bambini – della frana venuta giù da una delle montagne di rifiuti che punteggiano la discarica maxima di Addis Abeba, l’unica ufficiale della capitale etiopica. Da sempre accoglie la monnezza dei suoi 4 milioni di abitanti, strati su strati di rifiuti solidi urbani accumulati nell’arco di quasi 50 anni su una superficie di 37 ettari.

Koshe, il nome con cui è conosciuta questa zona della periferia sud-orientale della città, visibile in tutta la sua desolante estensione dall’autostrada che ne costeggia uno dei lati, in amarico non lascia molto spazio alla fantasia perché vuol dire «sporcizia». In evidente contrasto con Addis Abeba, «Nuovo Fiore», una delle città potenzialmente più salubri del continente, con i suoi 2 mila e passa metri di altitudine.

Come ogni discarica di una metropoli africana che si rispetti, Koshe ha il suo popolo di lavoratori informali. A centinaia ogni giorno si assiepano intorno ai compattatori delle ditte che si occupano della raccolta, cercando di intercettare quelli provenienti dai quartieri ricchi in base al colore, o alla soffiata di un autista.

Da Koshe arrivano di tanto in tanto notizie di ragazzi stritolati mentre per accaparrarsi i pezzi migliori assaltano i camion ancora in movimento. Tra materiali da riciclare e scarti di cibo, il necessario per sopravvivere ancora un giorno alla fine esce fuori. Molti non hanno avuto altra scelta che eleggere la discarica di Koshe a luogo anche di residenza, trovando riparo nelle baracche sorte qua e là. Il comune sostiene di aver tentato invano a più riprese di allontanare gli abitanti. Una volta sono stati effettivamente spostati in una località nei dintorni della capitale in cui sarebbe dovuta sorgere una nuova discarica (quando si dice la pianificazione). Ma l’ostruzione della popolazione locale ha affossato il piano e ai disperati di Koshe non è rimasto che tornare indietro.

Sabato sera c’erano almeno 150 persone nella zona investita dalla frana, secondo fonti locali. Il numero dei dispersi che ne deriva potrebbe quindi aggravare ancora il bilancio. Ieri sera si scavava ancora tra i detriti, in cerca di superstiti e corpi da estrarre. Indagini sono in corso, assicurano le autorità. Ma sul fronte delle responsabilità, le voci dei residenti riportate da più fonti sembrano individuarne di precise. La tragedia è avvenuta nell’area in cui sta per sorgere un grande impianto di termovalorizzazione, la prima centrale a biogas dell’Africa sub-sahariana, a quanto pare. Un progetto da 130 milioni di dollari e 50 megawatt appaltato all’azienda britannica Cambridge Industries. Secondo i residenti i bulldozer fino al giorno prima avevano continuato a spianare una zona sulla sommità della collina che poi è venuta giù.

Il ministro delle Comunicazioni Negeri Lencho sembra escludere a priori questa ipotesi, accusando piuttosto gli abitanti delle baracche di aver destabilizzato la montagna di rifiuti scavando gallerie al suo interno. Amnesty international invece attraverso il suo responsabile locale Muthoni Wanyeki accusa il governo di aver costretto questa gente a vivere così con le sue politiche, pur sapendo che la discarica era prossima al collasso.

Da qualche anno in Etiopia il Pil fa segnare un +8% annuo di media, mentre le libertà civili colano a picco. Oltre a reprimere duramente le lotte anti-discrimninazione degli Oromo e la ribellione in Ogaden, il governo sembra più impegnato a silenziare media e dissidenti che a contrastare le brucianti ingiustizie sociali del paese. Con metodi sui quali investitori internazionali e alleati storici, Usa in testa, trovano utile soprassedere.