Non è per inclinazione a vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto che torno con pessimismo sul tentativo di Zingaretti di rimettere in piedi il Partito democratico. Paolo Favilli e altri hanno mostrato su questo giornale molte ragioni di questo pessimismo.

C’è un tema essenziale, che mostra la drammatica inadeguatezza di questo partito, apparentemente resuscitato. E’ la timidezza e l’inconsistenza politica con cui si pone di fronte alla più grave minaccia che pesa sull’avvenire del nostro paese: la cosiddetta autonomia differenziata: straordinaria arma politica contro la Lega, non solo nel Sud. Hanno un bel dire Zaia e compagni nel tentare di ricondurre l’operazione eversiva entro i confini di una redistribuzione del potere amministrativo. Il carattere secessionista della proposta di legge è tutto nello spirito dei referendum regionali tenuti in Veneto e in Lombardia, in una campagna di massa che dura da decenni, oltre che nel testo dei pre-accordi con il governo Gentiloni.

C’È UNA VOLONTÀ DI SEPARAZIONE che sarebbe devastante per una Italia che ha faticato così tanto a diventare nazione, con squilibri territoriali gravi, presidiata da tre forme di criminalità storica che fanno stato nello stato, mentre si sono dissolti i collanti che hanno tenuto unito il paese dal dopoguerra agli anni ’80 del secolo scorso: i partiti di massa. Se passa quella legge si scatenerà un meccanismo che nessuno potrà più governare. Nel giro di pochi anni l’Italia diventerebbe un aggregato di regioni in conflitto mentre la sua criminalità assumerebbe sempre più la fisionomia di multinazionali finanziarie. Una Colombia senza stato nel cuore dell’Europa.

Come può essere un’alternativa un Pd che non prende di petto una questione strategica di tale peso, dal momento che non pochi suoi dirigenti, veneti, lombardi ed emiliani si riconoscono nel progetto secessionista?

Occorre avere il coraggio di dire che il tentativo di Zingaretti è un errore, che continuerà l’errore strategico originario, quello della nascita del Pd. Non soltanto, per dirlo con le parole di un giovane proveniente da quelle file, perché «un partito privo di riferimenti sociali, e dunque di rappresentanza, finisce per diventare soltanto lo spazio di un’aggregazione elettorale intorno a un leader» (Giuseppe Provenzano, La sinistra e la scintilla, Donzelli, 2019). E il Pd i riferimenti sociali, almeno quelli popolari, li ha quasi interamente perduti. Mentre Zingaretti non mostra e non ha nessuna possibilità di recuperarli, impegnato a tenere insieme le sue varie anime e capicorrente.

MA IL FATTO È CHE IL PD, NATO come partito riformista di centro-sinistra, è un partito di centro. Non ho bisogno di fare il lungo elenco di scelte politiche degli ultimi anni per dimostrarlo. E i partiti di centro devono la loro fortuna storica ad una configurazione delle società capitalistiche ormai dissolta. La Democrazia cristiana ha goduto per decenni di vasti consensi, perché era in grado di distribuire ricchezza anche ai ceti popolari, non solo in virtù di un capitalismo che aveva altre forme e radicamenti nazionali, ma perché alla sua sinistra Pci e Psi, vale a dire una sinistra con radici popolari, la incalzavano e le contendevano il potere.

Oggi tutte le formazioni che si pongono in mezzo alla schieramento politico – e che un tempo rappresentavano un ceto medio in ascesa – sono anchilosate dalla perdita di questa base sociale, che da oltre dieci anni, in Europa e in Usa, vede perdere reddito, potere e sicurezza. Il centro non ha più le risorse per accrescere il welfare e perdendo radicamento popolare, cerca consenso presso i poteri imprenditoriali e finanziari. Il Pd, tuttavia, non ha solo prodotto gravi danni ai ceti che avrebbe dovuto rappresentare, ha fatto deflagrare l’intero campo politico della sinistra.

L’AMBIGUITÀ DEL SUO ESSERE sempre più un partito di centro che si maschera di sinistra, ha catturato al suo interno una parte notevole del migliore ceto politico riformatore del nostro paese, portandolo ad accettare politiche che lo hanno reso gravemente impopolare. Ma questo non è stato senza conseguenze sulle possibilità della formazione alla sua sinistra di una forza politica realmente riformatrice, vale a dire votata a rappresentare ceti popolari, ad allargare il welfare, ad accrescerne il potere, a farsi leva della loro emancipazione.

Senza voler far sconti agli errori compiuti nei vari passaggi alla sinistra radicale e alla sua mancanza di iniziative, è evidente che l’esistenza del Pd ha frenato e reso minoritario lo sforzo di chi possedeva una lettura più profonda del capitalismo contemporaneo e delle sua gravissime implicazioni ambientali. Tale meccanismo è stato di una evidenza teatrale negli ultimi anni, durante il governo Renzi, quando figure politiche con una dignitosa storia di sinistra sono rimaste ammutolite dentro il più fallimentare progetto “riformista” dell’Italia repubblicana. E la permanenza di tali figure nel Pd costituisce oggi una grave e paralizzante prosecuzione dell’ambiguità, che ha fatto abortire tentativi come quello di LeU e continuerà ad alimentare la frantumazione a sinistra.

Occorre rassegnarsi all’idea che Zingaretti dirigerà un partito di centro, con cui si potranno fare anche battaglie comuni, ma solo se sorge alla sua sinistra un forza pienamente indipendente, non condizionata dai rapporti con questa fallimentare “casa-madre”.