Abuso dei diritti dei lavoratori e modifiche arbitrarie delle condizioni salariali. Sono le accuse che da mesi i rider rivolgono a Foodpanda, una delle tre società che assieme a Deliveroo e UberEats si spartisce il mercato del food delivery di Hong Kong.

Fondata a Singapore nel 2012, la multinazionale dal panda sorridente su sfondo rosa ha assunto durante la pandemia una grande mole di fattorini flessibili – il numero oggi è salito a 10 mila, operando in parallelo una riduzione delle tariffe di consegna.

Una politica entrata in vigore nell’estate del 2020 ha previsto la diminuzione della tariffa minima per i rider il cui tasso di accettazione degli ordini è inferiore all’85%: da HK$35 (circa 4 euro) a HK$28 per la consegna a piedi – da parte dei cosiddetti foot soldier, e da HK$50 a HK$45 per quelle in motorino.

Una situazione che ha implicato un calo generale dei salari e che ha spinto i lavoratori a scendere in protesta in due diverse occasioni. Se nel primo caso, a settembre 2020, l’azienda ha concesso alcune migliorie sulla trasparenza dei termini contrattuali, lo scorso luglio sono stata rifiutate tutte le richieste dei lavoratori.

Al giornale online Stand News un rider ha commentato che la partecipazione alle proteste di questa estate è stata molto bassa. Negli ultimi mesi, tuttavia, i rider si sono organizzati tramite gruppi WhatsApp. Mossi soprattutto dalla notizia di un ulteriore taglio alla paga che sarebbe dovuto entrare in vigore il 15 di questo mese, secondo cui la tariffa sarebbe scesa rispettivamente a HK$20 e a HK$40, più di duecento fattorini hanno manifestato nelle giornate del 13 e 14 novembre in vari distretti della ex colonia britannica.

Tra i numerosi cartelli con su scritto «Vergognatevi» e «Siamo persone, non cani», sono apparse in bella mostra le 15 istanze formali da sottoporre alla dirigenza. Oltre alla questione tariffaria si sono menzionati anche i diffusi casi di sospensione degli account dei rider per motivi irragionevoli e la cattiva gestione delle consegne.

Foodpanda affida l’organizzazione dei propri fattorini a un algoritmo che dà massima priorità alla rapidità del servizio, generando una serie di problematiche – calcolo errato delle distanze, tempi ristretti, mappe non veritiere – che pesano sul guadagno dei lavoratori, la cui paga è calcolata a consegna. Ma le sue pratiche di impiego, si difende la società, sono comuni a quelle dell’intero settore.

Intanto, se in un primo momento la multinazionale si è limitata ad accusare i lavoratori coinvolti delle manifestazioni di aver aggredito un rider in servizio, diffondendo tra tutti i dipendenti un comunicato in cui il direttore operativo Pedro Dias dichiarava di non poter tollerare «interruzioni intenzionali», domenica sera la dirigenza ha accettato di aprire il dialogo con i manifestanti.

Le trattative si sono concluse il 18 novembre con un accordo che gli otto rappresentanti dei lavoratori hanno detto non essere «quello che ci aspettavamo», ma ritenuto comunque «accettabile». Hanno poi aggiunto che Foodpanda ha preso in considerazione migliorie «fondamentali», che pare verranno attuate già il prossimo mese, in merito alla gestione dei percorsi di consegna e a una maggior trasparenza dei termini contrattuali. Sulla questione della paga la dirigenza sembra essersi limitata a incoraggiare i fattorini a prendere più ordini nelle ore di punta per puntare a una tariffa più alta.

Più che le concessioni parziali da parte della società, ciò che merita di essere sottolineato è la risonanza raggiunta dalle istanze dei lavoratori a livello internazionale, complice anche il supporto da parte di collettivi noti come Lausan, conosciuto per il ruolo attivo nelle proteste pro-democrazia dal 2019. E, ancora, la grande partecipazione di rider indiani e pakistani, che domenica hanno assunto la guida della protesta. «È la prima volta che la comunità cinese e quella sud-asiatica si sono unite per combattere per i propri diritti», si legge in una dichiarazione dei manifestanti diffusa sui social media.