Alla fine degli anni ’60, il dipartimento cinema della UCLA (Università della California, Los Angeles) inaugurò un programma di studi allo scopo di promuovere l’ammissione in facoltà di allievi facenti parte di minoranze etniche. Tra essi, un manipolo di studenti afro-americani cominciarono, con i loro primissimi lavori studenteschi, a interrogare le convenzioni del cinema dominante, realizzando film politici e “consciamente” sociali, con la speranza di cambiare radicalmente di segno alle precedenti produzioni di immagini che falsamente li rappresentavano. Una risposta rabbiosa e diretta, dunque, soprattutto a un’industria cinematografica che non smetteva di silenziare, o ancora peggio confinare, quella voce nonostante fossero ormai evidenti le prime crepe del sistema, provocate da cineasti della “frattura” come Richard Brooks, che avrebbero poi portato al dominio della New Hollywood. A questo sfolgorante mucchio selvaggio di cineasti, lo scrittore Clyde Taylor anni dopo li riunirà sotto l’etichetta “L.A. Rebellion”, è dedicata una delle sezioni “Rebelles à Los Angeles – Un nouveau cinéma afro-américain”, curata da Marie-Pierre Duhamel Muller, del festival parigino Cinéma du Réel, inaugurato ieri al Centre Pompidou, che culminerà il 2 aprile con un incontro con Charles Burnett e Hailé Gerima. Il ciclo propone tre diversi momenti, oltre a omaggio a Charles Burnett: Rebelles #1 concentra una dozzina di cortometraggi realizzati all’interno dell’università, Rebelles #2 è dedicato al capolavoro di Larry Clark Passing Through, mentre Rebelles #3 unisce i simbiotici As Above So Below del 1973 di Larry Clark (praticamente un’anteprima internazionale visto che il film sparì pochi giorni la sua prima proiezione negli Stati Uniti) con Bless Their Little Hearts (Bluesy Dream) di Billy Woodberry. La prima sezione dunque offre la possibilità di rintracciare affinità elettive e diversità stilistiche di questi filmmaker che si incontrarono, e confrontarono, per la prima volta da studenti grazie al “Project One”, un sorta di rito di passaggio, in 8mm, che ogni allievo doveva affrontare ancora prima di frequentare i corsi di regia e produzione. I ragazzi dovevano scrivere, dirigere e montare da soli, allo scopo di enfatizzare al massimo la propria creatività prima di essere “educati” alle regole di linguaggio, e produttive, di un’eventuale successivo ingresso nel sistema. Ed è proprio grazie a questa babilonia “legalizzata” che i giovani rebels with a cause cominciarono la propria lotta per creare un’alternativa, narrativa e stilistica, al modello dominante con l’intento di emancipare l’immagine e interrogarla, a livello profondo, su come essa sia in grado di “costruire” la nozione di razza, classe e genere, senza dimenticare di opporsi alla nascente e “colpevole” Blaxploitation. Rebelles #1 racchiude così Hour Glass, primo cortometraggio di Hailé Gerima, sulla tragica presa di coscienza di un giovane giocatore di basket, il lirico e faulkneriano poema del Sud The Horse di Charles Burnett, Medea di Ben Caldwell con il suo montaggio “collage” alternato alle curve di una donna incinta, la vendetta allucinata di una cameriera d’hotel di Daydream Therapy di Bernard Nicolas, la poesia documentaria di un giorno qualunque di una Community Fredoom School in Ujami Uhuru Schule di Don Amis per concludere con le superbe Julie Dash e Jacqueline Frazier, rispettivamente con Four Women e Hidden Memories, e le loro potenti riflessioni sulle gabbie sociali del ruolo femminile. Pur con questa comunione di intenti però, i ribelli del West non si presentarono al mondo con un manifesto politico e stilistico preciso, nonostante la vicinanza e il dialogo non soltanto con il cinema nuovo del cosiddetto Terzo Mondo (Glauber Rocha e Ousmane Sembène su tutti) ma anche con le avanguardie europee nuovellevaghiste, senza dimenticare il neorealismo italiano. Questo mosaico così sfaccettato, per generi e modalità, contiene però al suo interno un colore primario: il ruolo essenziale della musica. Oltre a scelte “obbligate”, come la militanza sax di Archie Shepp in Daydream Therapy di Bernard Nicolas, è la “secolare” voce di Nina Simone ad accompagnare le sinuose dissolvenze di Julie Dash con Four Women, ritratto caustico della sottomissione della donna nera americana, mentre Pirate Jenny, sempre in Daydream Therapy, scandisce l’orrore del quotidiano. Per Larry Clark invece, con il suo epocale Passing Through, il jazz è una delle più pure espressioni della cultura afro-americana, poiché incarna la lotta di decine di generazioni mentre per Killer of Sheep sceglie di far jazzare Rachmaninov con gli Earth, Wind & Fire e Dinah Washington in una vera e propria lezione di storia musicale. “L.A. Rebellion” dunque è probabilmente un’etichetta evocativa per qualcosa di troppo stratificato per essere contenuto in un solo nome ma, nonostante la “facilità” della definizione, riesce nel suo intento di sintetizzare un momento e un luogo “particolare” nella storia del cinema americano, dove una critical mass di cineasti riuscirono nell’impresa di sganciarsi dall’influenza del sistema. Alcuni di essi sono ancora attivi e sono riusciti a eludere le convenzioni, mantenendosi rigorosi all’interno dell’industria (Gerima su tutti ma anche Julie Dash, prima regista afro-americana ad avere piena circolazione con il suo Daughters of the Dust nel 1991), altri continuano a lottare attraverso forme alternative di espressione (Larry Clark insegna a San Francisco, Bernard Nicolas è tornato nell’originario Zimbabwe per poi fondare la prima distribuzione home video di film africani negli Stati Uniti), altri ancora sono rimasti voci lontane, sempre presenti, di un grido, oggi più che mai attuale e indispensabile, e di un cinema che non cessa di dialogare con la contemporaneità.