Continua il silenzio sul fronte dei luoghi della cultura: oltre ai ringraziamenti di rito della categoria al nuovo presidente Mario Draghi per le parole e gli impegni dedicati al «patrimonio che definisce la nostra identità», e alla combattività di chi ha tutto da perdere – e tantissimo ha già perduto – e cioè i lavoratori dello spettacolo dalle maschere alle maestranze (che manifestano il 23 febbraio), la ripartenza di cinema e teatri sembra uscita dall’orizzonte degli interessi nazionali. È di ieri la notizia che l’Anec auspica una riapertura in primavera affidando tutte le sue «speranze» al piano vaccinale. Certo questo stride con i piani di lancio della piattaforma ITsART – la celebre Netflix della cultura – che ancora sull’home page annuncia «Stiamo arrivando». Ma oltre alla vaghezza sui contenuti, quale sarà il suo scopo se sale teatrali e cinematografiche potranno riprendere le attività?

L’UNICO filo rosso in questi mesi di chiusure e silenzio sono stati i sentiti ringraziamenti a Franceschini per i ristori, che se da un lato sono necessari a consentire una futura riapertura e non un collasso definitivo, dall’altro devono comunque essere interrogati. Di circa 110 milioni stanziati per le sale cinematografiche oltre 30 (esentasse) sono andati alle due principali catene di multiplex – The Space e Uci – certo strutture immense che richiedono grandi spese, ma nel frattempo i lavoratori restano in cassa integrazione, mentre realtà più piccole che spesso sono i principali centri di diffusione della cultura cinematografica sui territori sono contemplate solo in quanto luoghi con una certa capienza e aspettative di incasso.

A differenza degli esercizi «commerciali» come appunto i multiplex, che hanno scarso interesse a riaprire senza titoli di cassetta, queste realtà svolgono un’attività che potrebbe proseguire anche in assenza di film di supereroi o di Checco Zalone. Perché allora – mentre gli assembramenti si fanno nei centri commerciali, e come si è ripetuto tantissime volte cinema e teatri hanno dato sinora prova di essere luoghi sicuri – non ribaltare la prospettiva e immaginare un sistema per cui i ristori siano un sostegno ai cinema che riprendono le proiezioni?

LA NOZIONE di esercizio cinematografico tiene insieme realtà distantissime tra di loro, dalle multisale dentro i centri commerciali alle centinaia di parrocchie che affollano gli allegati ai decreti che stanziano i ristori per l’esercizio – e come un blocco unico sono state trattate dal governo, mentre un anno quasi consecutivo di lockdown della cultura evidenzia che forse sarebbe stato meglio fare delle differenze. Magari offrendo l’opportunità di andare avanti non solo a negozianti e ristoratori ma anche alle sale, servendosi dei ristori per alleviare le perdite dovute al distanziamento e alle difficoltà della pandemia, e non come pioggia di soldi indifferenziata – se non per «potere economico» – su luoghi che spesso non sono che il contenitore di una pratica culturale che la crisi sanitaria rischia di spegnere per sempre.

Pensare al grande schermo dà una «sensazione da reduci» ci ha detto un’operatrice del settore: reduci di un mondo che sta venendo cancellato dall’immaginario, specialmente per i più giovani che spesso già fanno molta più esperienza del cinema attraverso le piattaforme. Anche perché questa visione monolitica di realtà differenziate e per la maggior parte piccole – (non) rappresentate dalle grandi lobby al tavolo delle trattative – inizia molto prima di arrivare al grande schermo.

A PARTIRE dalla stessa produzione, che non è destinataria di ristori dato che ha potuto riavviare i set sin dal primo lockdown seguendo le linee guida di sicurezza stabilite dal governo. Ma chi – al di là delle produzioni con budget sostanziosi – può permettersi di implementare tutte le misure necessarie per girare un film, e di assicurarsi contro i possibili incidenti di percorso come un focolaio sul set? E poi c’è la distribuzione: a breve per il settore verranno stanziati ristori per 25 milioni di euro. È ammesso chi aveva investito nella promozione di film con un’uscita programmata e poi resa impossibile dalle chiusure, e tutti quei titoli usciti nei periodi in cui le sale sono state aperte nel 2020 e la cui «vita cinematografica» è stata interrotta dai lockdown – a patto che abbiano incassato almeno 10.000 euro.

Una penalizzazione per i piccoli film, e una contraddizione dato che si tratta di una misura nata proprio per sostenere queste «vite interrotte» sul grande schermo, che non hanno fatto in tempo a incassare – oltre al fatto che sono escluse le autoproduzioni in quanto si può accedere ai ristori solo con il codice Ateco. Ancora una volta la riduzione a uno di una realtà complessa, e la visione puramente in termini economici di un patrimonio immateriale.