Scrivo per dire ai lettori de il manifesto interessati alle sorti del costruendo nuovo soggetto di sinistra, provvisoriamente chiamato SI – e che tengono in qualche conto l’ opinione di una ottuagenaria – che, secondo me, l’assemblea di sabato nella Sala di via dei Frentani è stata positiva. Anche più di quanto prevedevo. Non solo per il numero dei partecipanti, ma anche per la loro qualità: quasi tutti più giovani (e più equilibrati per genere) degli abituali frequentatori degli innumerevoli appuntamenti della sinistra; e perciò meno oppressi dai rancori prodotti dalla sua frantumata storia.

E tuttavia, incoraggiata dalla introduzione di Alfredo D’Attorre che non ha risparmiato l’autocritica sul nostro comune vissuto di questi ultimi mesi, vorrei dire anche io cosa mi sembra ancora non vada. Estraggo solo un paio di cose fra i molti temi di cui vorrei si discutesse seriamente già nella fase di preparazione del congresso. (Se si mette al mondo un partito si può anche accettare che non tutti siano d’accordo su tutto, ma occorre almeno che le diversità siano rese esplicite per poterle superare).

Comincio dall’alternativa. Nicola Fratoianni ha risposto con efficacia nel suo intervento alla denuncia dei compagni sardi (francamente un po’ rozza: chiedere di andarsene al gruppo dirigente di Sel perché non avrebbe vinto, presentando invece vincente la carta del centro sinistra, è davvero un po’ troppo ).

Né ha qualche fondamento l’ipotesi di un centro sinistra che rinascerebbe dalle ceneri solo che Renzi fosse sconfitto, perché oramai il Pd riflette un altro blocco sociale, un’altra cultura, altri valori;e perché Renzi non è un marziano, ma il rappresentante locale di una potente corrente mondiale, e specificamente europea, che considera la democrazia quale la abbiamo conosciuta un impiccio ormai non sopportabile per il sistema; che dunque va sostituita con la governance, e cioè sottraendo il potere deliberante alla sovranità popolare per affidarlo a esecutivi simili ai Consigli d’amministrazione delle imprese. (Altra cosa è quanto resta del vecchio corpaccio comunista, portatore di una memoria importante, e però incapace di accettare il dovere di un nuovo inizio. In quel pezzo di popolo ci sono naturalmente tutt’ora interlocutori per noi decisivi).

La parvenza di realismo della posizione dei nostalgici del centrosinistra sta nel dire: un altro schieramento governativo oggi non c’è. Il che è assolutamente vero. Le nostre liste alle elezioni amministrative non hanno avuto successo – molti l’hanno detto – proprio per questo. A differenza dei 5 Stelle, che un’alternativa l’hanno rappresentata in alcune importanti metropoli. Almeno nominalmente, poi vedremo.

Prendere d’atto che per ora non esiste una formula sostitutiva del defunto centrosinistra a livello nazionale – altra cosa sono le istituzioni locali, perché il territorio sta già dando prova di essere ricco di energie e formule inedite di rappresentanza – non rende tuttavia affatto meno credibile il nostro discorso. A condizione si renda chiaro che la premessa di ogni seria alternativa è la ricostruzione di un tessuto democratico pesantemente slabbrato, capace di ricreare le condizioni affinché la politica torni ad avere un ruolo. Senza la paziente e difficile ricostruzione di forme di partecipazione e di assunzione di responsabilità collettiva, vince l’idea della efficienza manageriale (Renzi) o la comunicazione mediatica che crea il mito di individui onesti in virtù dello spirito santo. O, peggio, il disincanto. Quando chiediamo voti è intanto per dar forza a questo progetto immediato ed urgente.

Non vuol dire ignorare la necessità di conquistare un ruolo istituzionale e rifugiarsi nella cuccia dell’extraparlamento. Anche questa battaglia può portare frutti corposi: basta con questa ossessione “governista” che delega i risultati solo e sempre a quanto potrebbe fare un governo. (Se combattiamo contro lo stravolgimento costituzionale minacciato da Renzi non è del resto proprio perché il suo nocciolo consiste nel voler consegnare il potere di deliberare tutto e solo nelle mani dell’esecutivo, nel ridurre la democrazia alla tutela del monopolio della maggioranza, alla c.d.”governabilità”?)

Il vecchio Pci al governo non c’è stato mai, ma sappiamo che quasi tutto quanto di buono abbiamo conquistato è stato merito della sua azione. Anche allora non c’era una prospettiva immediata di governo, ma quel partito è stato efficace perché ha saputo conservare un’ottica di governo ( che è altra cosa), senza chiudersi in sterili minoritarismi.

Attrezziamoci a creare le condizioni per ottenere altrettanto, nelle forme adeguate ai tempi presenti. Il che vuol dire dar vita non solo al Partito che vogliamo far nascere, ma contemporaneamente essere l’anima, lo stimolo, per la crescita non solo di movimenti di protesta, ma di una rete di più consolidati organismi che si assumono sul territorio, e laddove c’è lavoro sfruttato, la responsabilità di gestire la collettività e di dar luce e prospettiva alla sua conflittualità. Da questo punto di vista le coalizioni che si sono costituite in molte città per le elezioni amministrative possono essere una risorsa preziosa ed è nostro interesse tenerle in vita. (Del resto il solo modo per impedire che un partito diventi autoreferenziale è mantenere vivo un rapporto dialettico con quanto si muove al di fuori, nella società. (Non averlo fatto, dal ’68 in poi, è stato il mortale errore del Pci).

È difficile un simile discorso, poco “popolare”? Sì, lo è.

Ma difficilissimo – dobbiamo saperlo – è fare un partito, tanto più in un tempo in cui la bussola non è più offerta, linearmente, da un soggetto socialmente omogeneo come era la classe operaia novecentesca. All’assemblea di via dei Frentani si è sentita molto spesso l’eco, soprattutto negli interventi dei più giovani, del dibattito che è riemerso sul populismo di sinistra, reintrodotto da Laclau tramite Pablo Iglesias. Anche questo mi pare un tema da affrontare. Capisco la preoccupazione di chi teme un distacco dalle masse popolari, l’intellettualismo di certo sinistrese, il timore che suscita vedere la sinistra vincere solo fra i ceti medi colti e non più nelle periferie. Ma non semplifichiamo troppo questo discorso.

Ernesto Laclau, al di là di qualche stravolgimento interpretativo che c’è stato, intendeva in realtà riproporre (e lo ha fatto un po’ confusamente) la tesi gramsciana sulla necessità di costruire anche in Italia un popolo-nazione. Ma Gramsci voleva sottolineare l’importanza a questo fine del momento soggettivo, contro ogni spontaneità elementare. Credeva al ruolo degli intellettuali, non come detentori di uno specialismo e come esponenti di una professionalizzazione della politica, bensì, tutt’al contrario, al loro diventare “organici”, per superare la loro separazione e colmare la distanza fra governanti e governati, sola base reale della democrazia. Nella società e nei partiti. Solo i populisti veri sono quelli che hanno interesse a lasciare il popolo preda di una cultura primitiva, che riflette solo quella del potere, laddove l’obiettivo – certo ambizioso – è rendere possibile un progresso intellettuale di massa e non di ridotte elites. Il famoso “intellettuale collettivo”.

Non vorrei che il sacrosanto accento sulla necessità di recuperare un rapporto con il popolo fosse immeschinito. Proprio oggi quando anche solo immaginare un mondo che produca, consumi, viva in modo diverso richiede una eccezionale capacità innovativa. Se poi invece questo richiamo è lanciato nell’intento di recuperare anche quel rapporto fisico che un tempo c’è stato nella sinistra – qualcuno ha detto “mischiarsi”- allora ben venga. Perché tornare a vivere e a far politica in luoghi comuni è essenziale: voglio ricordare la più proficua esperienza, ancora una volta del vecchio Pci, quando segretari delle sezioni più periferiche sono stati i più importanti intellettuali comunisti.