La guerra contro lo Yemen è una guerra occulta: oltre 4mila morti, un milione di sfollati interni, 21 milioni di persone senza accesso costante a cibo e acqua. Alla devastazione subita dalla popolazione civile se ne aggiunge un’altra: quella alle immense ricchezze archeologiche e architettoniche di un paese che è stato culla della civiltà araba e islamica. Sana’a, Marib, Aden: città, che ad ogni angolo narrano la storia del mondo arabo e il suo incontro con popoli asiatici e africani, sono in macerie.

«Paradiso»: questo significa in arabo il nome Aden, la città portuale a sud, target dei violenti raid della coalizione anti-Houthi guidata dall’Arabia saudita.

Quello che lo Stato Islamico sta facendo in Iraq e in Siria, cancellando Palmira e Nimrud, Riyadh lo sta facendo in Yemen, nel silenzio del mondo. Ne abbiamo parlato con Lamya Khalidi, archeologa staunitense di origini palestinesi al Centro Nazionale della Ricerca Scientifica (Cnrs) francese.

Lamya ha vissuto in Yemen per otto anni e lo segue dal 2001. Oggi monitora i danni provocati dal conflitto in corso.

Dopo oltre cinque mesi di guerra, è possibile fare un bilancio dei siti distrutti o danneggiati, stimare le perdite per il patrimonio yemenita?ù

È difficile dare i dati esatti, neppure le autorità locali sono in grado di muoversi sul campo per documentare i danneggiamenti. Al momento, comunque, il bilancio è terribile. L’ultimo rapporto del Ministero degli Interni risale al 19 luglio e comprende 43 siti (moschee, siti archeologici e luogi turistici). Ritengo che tale numero sia aumentato a dismisura negli ultimi due mesi a causa della violenza dei bombardamenti. È impossibile stimare il numero di reperti danneggiati o distrutti. Possiamo farlo nel caso del Museo di Dhamar, polverizzato in un bombardamento aereo: conoscevamo prima il numero di oggetti lì conservati, non servono altre stime, si è perso tutto. E non dimentichiamo che i raid, il caos e la povertà facilitano i saccheggiamenti di siti e musei. Ci sono poi siti che sono stati bombardati più volte, come l’antica diga di Marib o i siti di Baraqish e Sirwah, risalenti al primo millennio a.C.

Tra i siti più noti, simboli dell’impatto della distruzione di un’eredità mondiale, quali sono ormai persi per sempre?

Vista l’ampiezza della distruzione, dobbiamo dividere i danni a patrimoni tangibili in cinque categorie: le città; i monumenti come moschee, cittadelle, forti; i siti archeologici; i reperti archeologici; e i musei.
Il museo di Dhamar è un significativo esempio della portata della perdita. Il museo ospitava decine di migliaia di reperti, alla cui catalogazione hanno lavorato molti archeologici yemeniti e stranieri. Si trovava in un sito archeologico, scavato prima della costruzione del museo. È stato polverizzato in un secondo, non riesco a capire come nessuno possa reagire. Se il museo nazionale egiziano del Cairo fosse bombardato, il mondo si mobiliterebbe, scioccato e disgustato. Quando il museo di Mosul è stato vandalizzato, i video hanno fatto il giro del mondo e la reazione della gente è stata durissima. Qui stiamo parlando di musei nazionali, istituzioni nazionali che proteggono tesori inestimabili.

I siti archeologici sono numerosi, molti sono stati colpiti all’inizio del conflitto dalla coalizione saudita e poi bombardati di nuovi, nonostante gli sforzi di Unesco e archeologi di proteggere un patrimonio mondiale. Tra questi la diga di Marib, ancora oggi target, è un’impresa del genio ingegneristico del primo millennio a.C. quando a governare lo Yemen era la dinastia Sabei. Un’altra città della stessa epoca, Baraqish, restaurata da un team italiano, è stata colpita solo pochi giorni fa: il tempio di Nakrah, completamente sitrutturato dagli italiani, il tempio di Athtar, le mura cittadine e anche la casa usata dal team, sono ridotti in macerie.

Se parliamo di città, classificate siti Unesco per la loro architettura mozzafiato, unica, la lista è lunga: è difficile trovare in Yemen un villaggio che non abbia la sua particolarità. Il più ovvio atto di vandalismo sono i raid contro le città vecchie di Sana’a e Shibam, entrambe patrimonio dell’umanità. Meno note sono Zabid, Saada e Wadi Dhahr, in lista per l’ingresso all’Unesco.

E poi ci sono i monumenti, moschee e cittadelle, tombe sacre, distrutti dai raid aerei o vandalizzati da gruppi come Isis e al Qaeda, che vi vedono forme di idolatria. Non è qualcosa di nuovo in Yemen: da quando ci lavoro, da 15 anni, i miliziani Wahhabi spesso arrivano dall’Arabia saudita per distruggere l’eredità yemenita. Ma queste moschee e tombe sono parte di un’identità ricchissima e antica, che intreccia insieme l’Islam religioso e quello culturale.

Molti non sanno di quanto sia esteso il patrimonio yemenita, della sua universalità. È un paese con una cultura che è un mosaico di elementi, dall’Asia sudoccidentale, dall’Africa dell’Est, dal Medio Oriente. È un incredibile mix di popoli, suoni, sapori, estetica, architettura che si sono uniti naturalmente, in un modo bellissimo, con sullo sfondo uno dei paesaggi più vari al mondo. Ora tutto ciò è in pericolo.

Pensa che in futuro sarà possibile recuperare parte di questa eredità? O si tratta di danni irreparabili?

La principale tragedia sono le vittime civili e la profondità dei danni alle infrastrutture e alle case. Quando la crisi finirà, il recupero di questo patrimonio non sarà una priorità. In ogni caso, si potrà recuperare solo quello che esiste ancora. Quello che è stato distrutto, è perso per sempre, è insostituibile. I bombardamenti continui contro alcuni siti e la demolizione completa di altri lasciano ben poca speranza. Quello che l’Isis sta compiendo in Siria e Iraq contro i patrimoni locali è esattamente lo stesso di quello che Riyadh fa in Yemen.

Ci sono organizzazioni internazionali che stanno tentando di fare pressioni sui sauditi per proteggere questa eredità?

Quello che sta succedendo in Yemen sta avvenendo nel silenzio assoluto del mondo. Non c’è neppure una buona copertura mediatica. Intanto la gente è terrorizzata, i raid sono così violenti e colpiscono pesantemente le aree abitate, intere famiglie non sanno dove andare o cosa fare. Questa è la dimostrazione che la coalizione bombarda indiscriminatamente, senza preoccuparsi di vite umane, patrimonio o diritto internazionale. I racconti di amici e colleghi rimasti in Yemen mi ricordano l’attacco israeliano contro Gaza della scorsa estate.

Nel caso del patrimonio storico, i raid sono sì indiscriminati ma anche molto precisi. Alcuni siti sono nel mezzo del deserto, come la diga di Marib. Puoi colpirla solo con coordinate precise. E poi lo rifai, per settimane: è chiaramente una distruzione voluta perché quel sito non minaccia nessuno. Non ci sono strade vicino, né villaggi intorno. L’Unesco ha consegnato all’Arabia saudita una lista di siti protetti, ma Riyadh è indifferente. La pressione che viene fatta sui sauditi è nulla: i tentativi di protezione non sono proporzionali al livello di distruzione. L’Unesco cerca di fare la sua parte ma non ha influenza. Nessuno ascolta.

In un editoriale sul New York Times, lei ha parlato di “vandalismo saudita”. Qual è l’obiettivo di Riyadh quando distrugge i simboli di un paese con una storia millenaria? Imporre la propria narrativa, la propria autorità?

Non so quale sia l’obiettivo, ma posso dire che si tratta di una distruzione calcolata: conosco questi siti, dove si trovano, quali sono abitati e quali no, e so che non è facile colpirli a meno che non lo si voglia. Dall’altro lato abbiamo città come Sana’a e Shibam, siti Unesco, chiaramente molto popolati: è evidente che siano affollati di civili e siano sede di un patrimonio importante. I sauditi, che in mano hanno una lista no-fly, non rispondono alle domande sul perché stanno compiendo una simile distruzione. Non penso lo faranno fino a quando i loro alleati, gli Stati Uniti e l’Europa, invieranno loro un equipaggiamento ad alta precisione che provoca distruzione di massa. Nessuno li sta accusando di crimini contro l’umanità. Si tratta di puro vandalismo, esattamente quello che compie l’Isis in Siria.