partigiano

Dopo decenni di storia militare e politica in senso stretto, questo settantesimo anniversario della Liberazione ha riportato sulla scena della saggistica e della letteratura le soggettività. Le persone in carne e ossa che hanno combattuto la Resistenza si sono riprese la scena spostando l’asse della narrazione dai solenni momenti collettivi ai grovigli interiori ed esistenziali di chi ha scelto di lasciare tutto – lavoro, famiglia, amori – per combattere, armi in pugno, la lotta di liberazione nazionale. Se Giovanni De Luna, con il suo La Resistenza perfetta (Feltrinelli), ha calato l’indagine storiografica nel terremoto di passioni e di tensioni che hanno animato la Resistenza in un microcosmo locale, Giacomo Verri, nei suoi Racconti partigiani (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, pp. 126, euro 14) ha messo in scena tante storie individuali che affondano le radici nella Resistenza valsesiana.

Gli otto racconti di Verri sono molto diversi l’uno dall’altro, ma qualcosa li accomuna: ci sono le speranze, le paure ma ci sono soprattutto le frustrazioni. O meglio, un senso di sconfitta che si accompagna alla gioia della vittoria. Molti partigiani avevano creduto che la Resistenza non dovesse concludersi il 25 aprile ma essere piuttosto capace di trasformarsi, di diventare qualcosa di diverso, in grado di intridere di sé il profilo della nuova Italia. Ben presto, però, la retorica della pacificazione nazionale aveva imbrigliato le istanze di rinnovamento, relegando la Resistenza e i partigiani nel panorama mummificato delle glorie della nazione (quando non sul banco degli imputati). Nelle prime pagine del libro, questo sentimento appare in modo quasi tragico nella figura del partigiano che, la sera del 25 aprile, prima di addormentarsi, si interroga su «cosa avremmo fatto col sole nuovo» per poi accorgersi, col trascorrere dei mesi, che «si smetteva di fare bene per fare benino, ogni volta di più».

La Resistenza, nei racconti di Verri, si manifesta in tutta la sua portata esistenziale come l’apice della vita di chi l’ha combattuta. Un apice che verrà coltivato per decenni, rivendicando un ruolo, cercando spazi per raccontare la lotta antifascista in una società sempre più sorda a quei valori. L’idealtipo del partigiano diventa così colui che «considera meravigliosa la sua giovinezza imprudente, ritiene che nulla potrà mai eguagliarla, che nulla mai sarà bastevole, che si stava meglio quando si stava peggio, che la guerra te la ricordi per sempre e diventa l’«esperienza più gigantesca che uno possa fare, la memoria meglio attanagliata e più svelta a tornare». Frustrazione, sì ma non rassegnazione. Perché in questi racconti la trasmissione della Resistenza, della sua memoria e dei suoi valori assume i tratti di una scelta profondamente politica e, soprattutto, antiretorica. Verri, memore delle pagine di Calvino, sa bene che nella temperie della guerra civile il caso giocava un ruolo pesante nel far trovare una persona da una parte o dall’altra, ma sa anche che una volta compiuta la scelta di campo, fra chi decideva di fare il partigiano e chi, invece, sceglieva di rimanere al suo posto, si apriva un abisso politico ma soprattutto etico e morale, insormontabile. Ecco: i Racconti partigiani di Giacomo Verri ci calano in questo abisso e ci fanno respirare, in tutta la sua materialità, la generosità che ha permesso di scrivere la pagina più alta e bella della storia del nostro paese.