Davvero è una esperienza fuori della norma stare ad ascoltare, incantati ma ben presenti, il racconto che Salvatore Striano, detto Sasà, fa della propria vita, dall’infanzia e adolescenza nei Quartieri spagnoli di Napoli, alle esperienze di piccolo crimine, fino al carcere. E oggi al teatro. Anzi da parecchio tempo, visto che Sasà proprio in carcere ha cominciato a giocare (jouer direbbero i francesi, che significa appunto anche recitare) col teatro. A Rebibbia nelle esperienze condotte da Fabio Cavalli, e poi anche nel film pluripremiato che vi girarono i fratelli Taviani, Cesare non deve morire, dove egli interpretava Bruto, l’assassino di Cesare quando questi stava per diventare tiranno a Roma.

DA ALLORA, libero per aver concluso i suoi conti con la giustizia, l’attore di film ne ha girati tanti (il primo era stato il leggendario Gomorra di Matteo Garrone), ma il teatro è rimasto per lui una passione profonda, o anche qualcosa di più: quasi il motore pensante della sua vita, e della sua condotta. Ne è prova lo «spettacolo» che periodicamente l’attore riprende, e che presenta in questi giorni a Roma (all’Off off di via Giulia, oggi e domani le ultime due repliche).

IL TITOLO, sommessamente ma con chiarezza, indica già una direzione di lettura: Il giovane criminale. Genet/Sasà. E quella chiamata in causa del grande scrittore e commediografo francese non risulta affatto peregrina, così come non suona strumentale o puramente «accattivante». Perché quella che Sasà ci racconta è evidentemente la sua propria personalissima storia, ambientata dove si è svolta, e appena arricchita di particolari coloriti. È una storia di formazione di cui nulla viene omesso. La bellezza narrativa è nel percorso in cui scelte, necessità, incidenti e accidenti si mescolano e si integrano riuscendo a trasformare un possibile finale «nero» in una favola del tutto aperta, come è l’attuale condizione di Sasà attore, narratore e soprattutto persona. Così come appare allo spettatore che vi assiste: senza infingimenti o stratagemmi, con tanta sincerità e un senso fortissimo dell’autocoscienza.

QUESTO ce lo rende, a qualche punto del racconto, davvero la personificazione del pensiero di Genet, e il titolo scopre la sua derivazione da quel L’enfant criminel che l’autore francese scrisse nel 1948, quando, ottenuta la commissione di un articolo/saggio, sicuramente grazie a Sartre, da parte della prestigiosa e schieratissima Nouvelle Revue Française, se lo vide invece rifiutare per il suo «estremismo». Quel quieto, ragionato racconto genetiano, rivive e prende concreto corpo in quello sobrio eppure lancinante di Sasà Striano, che senza retorica e senza compiacimento, ci guida alla scoperta della sua esperienza e della sua «formazione».
Assolutamente «genetiana», e così lontana da caccole e manierismi e furbizie che solitamente gravano e respingono l’ascoltatore, anche sulle scene delle migliori intenzioni. Qui, per una volta, la simpatia diviene naturale e laica solidarietà.