Al centro di Figlia di una vestaglia blu (Edizioni Alegre, pp. 224, euro 15) stanno il lavoro e il colore blu, due ossessioni narrate nella riedizione di questo romanzo autobiografico di Simona Baldanzi. Il blu della divisa della madre, operaia dalla Rifle, la fabbrica di jeans che aveva sede nel Mugello e che qualche anno fa ha interrotto la produzione. Il lavoro dei minatori, per lo più calabresi, che stanno nel Mugello per scavare le montagne e costruire la linea ferroviaria dell’alta velocità. Nel testo gli aneddoti famigliari di «una figlia di operai» si alternano al racconto della ricerca di tesi che Simona fa nei campi di base dove i minatori, lontani dai loro cari, vivono nei container.

ANCHE la coscienza di classe è un’ossessione, prospettiva di osservazione del mondo imprescindibile per chi ce l’ha e sconosciuta per chi invece si può permettere di ignorarla: «nel mondo del lavoro vedi sempre che comunque sei sì laureata, ma pur sempre stingi di blu… il tuo nome non dice nulla a nessuno… e quindi devi fare il triplo di fatica per valere la metà degli stronzissimi figli di papà. Si stinge di blu, anche dopo innumerevoli lavaggi». Nella vita di Simona la coscienza di classe è il centro da cui si irradia tutta la sua esistenza: prima di tutto perché su di essa si fonda la sua relazione con la madre, operaia «alla catena», che tornata a casa, tutte le sere, dopo aver preparato la cena, occupava la conversazione a tavola coi racconti della fabbrica. Simona la descrive come una donna «così perennemente incazzata», ma anche capace di grande entusiasmo: messa in cassa integrazione si iscrive all’università libera e a corsi di danza, partecipa ai viaggi organizzati dalla Coop.

Non c’è frustrazione, infatti, nel suo racconto di «figlia di operai», non solo perché Simona è stata spinta dalla madre all’emancipazione: «studiate bambini, studiate, perché è brutto quando non ti vengono le parole per difenderti, ti vengono sempre dopo, quando è tardi». E Simona le parole imparate a scuola e all’università le ha usate veramente per difendere i diritti dei lavoratori. Il suo impegno per la denuncia delle condizioni dei minatori Cavet (Consorzio Alta Velocità Emilia Toscana) traspone, infatti, nel presente la sua discendenza operaia e segnala in primo piano la gravità, a volte tragica, di chi ancora muore sul posto di lavoro o vive una vita che è solo sopravvivenza, la propria e quella dei propri figli.
In questo sta l’importanza del romanzo, nel racconto di una questione politica che adesso fa così fatica a emergere, sommersa in modo colpevole da narrazioni distorte: «dei lavoratori non se ne parla. Quando si parla di ambiente non si parla di lavoro e così si tengono staccate le due cose, che invece vanno di pari passo».

LA LOTTA POLITICA di Simona ha infatti un radicamento territoriale: non difende solo i lavoratori, ma anche il suo Mugello, sventrato dalle gallerie ferroviarie. Si ritrova, poi, nel racconto della sua pratica politica, il rimando a quei luoghi mitici e cruciali che sono le Case del Popolo in Toscana: spazi in cui i giovani e i vecchi si incontrano, mescolati in un destino comune dato dalla nascita in una terra che è la stessa, in un groviglio di storie che non solo vanno tramandate, ma difese, anche con le parole.