Il primo riguarda il governo locale: il sindaco di Bologna esterna in anticipo i suoi tre Sì ai referendum della Cgil, invece l’assessore regionale del Lavoro sostiene la bontà dei voucher, come strumenti straordinari e temporanei. Il sindaco e l’assessore sono entrambi espressione del Pd e dovrebbero condividere una stessa linea programmatica, anche se a livelli istituzionali diversi. Il secondo riguarda il sindacato Spi-Ggil: il sindacato dei pensionati retribuisce con i voucher i propri dipendenti, circa cinquanta persone, e la Fiom lo accusa di essere «tra i peggiori sfruttatori». Il segretario nazionale della Cgil tace e spera nella loro abolizione.

Il terzo fattore riguarda le Coop: alcuni soci delle cooperative sociali denunciano il perseguimento degli utili e dei dividendi (in forte crescita ogni anno) e il disinteresse per l’accoglienza degli ultimi (sempre più problematica). La denuncia dei “valori traditi” li ha portati alla dimissione da soci della cooperativa. Il quarto e ultimo fattore riguarda il Pd bolognese e regionale: i rispettivi segretari hanno promosso la campagna di ascolto degli iscritti (sempre più in calo) voluta dal segretario nazionale. Una campagna inutile, visto che i rappresentanti delle istituzioni e delle organizzazioni sociali di area Pd hanno già deciso ed esternato le proprie scelte.

Questa è solo l’ultima fotografia di una sinistra da tempo lacerata, senza identità e priva di una idea, dicasi una su come realmente ripartire. Il dubbio che questo Pd emiliano sia in grado di risalire la china, appare più che fondato. Viene da pensare che lo storico slogan “Bologna la città più rossa dell’occidente” sia svuotato di significato e orgoglio, e sostituito dalla boria del potere. Va detto che la crisi della sinistra a Bologna e nella regione Emilia Romagna viene da lontano. Che la crisi è iniziata alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando la politica di centrosinistra cede al consociativismo e rinuncia al governo delle riforme. Da allora si assiste ad un continuo rinchiudersi, del Pci prima e del Pd oggi. Il “cambiamento nella continuità” è stata una risposta difensiva e pavida, di chi credeva che il buon governo rosso potesse conservarsi sulla tenuta dei quattro pilastri, che ne avevano permesso il successo.

La sinistra ha sottovalutato lo scricchiolio e il cedimento del governo locale, del partito, del sindacato e delle cooperative. Ha preferito non fare i conti con la sua storia e con la rivoluzione capitalistica delle tecnologie e dei mercati. La mancanza di coraggio e responsabilità, il rifiuto dei nuovi strumenti di analisi, l’incapacità di elaborare idee alternative e l’assenza di una visione, stanno alla base della crisi e dell’attuale fallimento.
I dirigenti emiliani più cinici, pur accorgendosi del sommovimento in atto, hanno preferito sostenere che era meglio stare al governo finché i quattro fattori non avessero del tutto ceduto, piuttosto che avventurarsi verso un nuovo disegno politico, che avrebbe comportato nell’immediato una perdita del potere.

Si è arrivati così nel 2014 alla continuità del governo regionale con una maggioranza striminzita del centrosinistra (inferiore al 20% ) e con un voto dei cittadini ai minimi storici (37,7%). Naturalmente la politica della continuità a ogni costo ha impedito di porsi qualche interrogativo.

Per non cadere nel pessimismo, oggi che quei quattro pilastri sono in disfacimento, occorre sperare che tutta la sinistra sappia aprire una fase costituente, dando priorità a ricerca e formazione, le premesse per dotarsi di un volto nuovo, di una cultura alternativa e di una strategia vincente.