Gentile, elegante, misuratamente ironico, degno di fede nel low profile dei suoi giudizi, Germain Viatte è tra i massimi conoscitori della fratrie Duchamp (in ordine anagrafico, Gaston, Raymond, Marcel, Suzanne), a cui ha dedicato una piccola mostra, Esprits de famille, les Duchamp, nel 2013-’14, in occasione della sistemazione delle quattro sale relative nel musée des Beaux-Arts di Rouen (la famiglia Duchamp, ricordiamolo, abitò dal 1905 proprio di faccia al museo: 71, rue Jeanne-d’Arc). Per discutere di questi «spiriti», Viatte mi accoglie nella sua bella casa parigina di rue Cardinal Lemoine: è la zona più signorile del Quartiere Latino, di spalle alla chiesa di Saint-Étienne du-Mont, dove riposa Pascal. Ci accomodiamo in una stanza da letto a uso studio, munita di volumi utili all’occorrenza, compresi quelli riguardanti František Kupka – si è appena conclusa la memorabile mostra al Grand Palais –, che ebbe con i fratelli rouennaises un rapporto di cauta vicinanza.
«Marcel è in porcellana quello che io sono in maiolica»: così Gaston, il primogenito dei Duchamp (nome d’arte Jacques Villon), sul secondo dei fratelli minori. Per avvicinarsi all’enigma Marcel Duchamp una suggestione del genere è più utile di molte delle speculazioni teoriche – non tutte, non quelle di Jean Clair –, che hanno finito per trasformare il loro oggetto in un alibi culturalistico. Come rimettere in asse la questione? Forse, soprattutto, cercando di ricostruire non abusivamente il contesto familiare, così speciale, da cui è potuto sortire quell’uomo avventuroso, morto cinquant’anni fa, che preferiva respirare piuttosto che lavorare.
Ma ricorrono anche i cento anni dalla scomparsa, per una febbre tifoidea contratta nelle trincee della Grande guerra, dell’altro fratello, secondogenito, Raymond, lo scultore cubista conosciuto come Duchamp-Villon. Doppio anniversario, dunque, che dà modo di riaprire con Viatte il dossier sui fratelli Duchamp (compresa, più in disparte, Suzanne), considerando che proprio a lui si deve, oltre alla mostra di Rouen sulla famiglia, la meravigliosa monografica di Gaston (cioè Jacques Villon), tenutasi ad Angers nel 2011-’12, di cui resta un catalogo-chiave, che ridà statuto a un grande maestro, non così riconosciuto – e cercheremo di capire perché – nel canone dell’arte moderna. Anzi, la conversazione è proprio sull’aîné Villon che si impernia, in quanto figura depositaria, con punte persino patologiche, della memoria familiare, nel leggendario atelier di Puteaux. Viatte: «Villon, fino a un certo momento, è stato visto come il pittore francese per antonomasia, poi Marcel ha preso tutto il campo: ma andavano d’accordo, eh…».
Sicuro? È vero che Marcel, riferendosi alla “gloria” di Villon nel secondo dopoguerra, si dice «felice» che almeno lui, della famiglia, venisse considerato un grande pittore, ma resta l’impressione, quando ne parla, di una certa, studiata reticenza: come se il rapporto, a parole risolto e pacifico, nascondesse l’inciampo se non proprio l’abisso…
Non penso: Marcel aveva un profondo senso della famiglia. Ma quando lo si dice a Jean-Jacques Lebel [l’artista figlio di Robert, amico e primo biografo di Duchamp], gli si drizzano i capelli in testa: «non è vero!». Mi dispiace, ma Marcel era molto legato alla sua famiglia: amava il padre, trovava la madre un po’ noiosa, adorava i fratelli, quindi penso che il problema sia da approfondire. E inoltre, era stranamente bendisposto, non con i cubisti che lo avevano messo al bando: Metzinger, Gleizes, ma, in generale, con gli artisti che apprezzava, pittori e non pittori. Lo dimostrano le schede che redasse per il catalogo della Société Anonyme: molto interessanti, a volte quasi troppo benevole…
La voce «Villon» fu scritta anch’essa da Duchamp…
Sicuro… A un certo punto della mia carriera, nel 1965 o ’66, insieme al mio superiore di allora, Bernard Anthonioz, ho dovuto fare visita a Marcel per un intero pomeriggio, nello studio di Neuilly, 5 rue Parmentier [lo aveva ricevuto in eredità da Suzanne, morta nel 1963]. Si doveva discutere della possibilità, tecnica e finanziaria, di realizzare per la città di Rouen un esemplare supplementare dello Cheval majeur di Duchamp-Villon: lo desiderava la municipalità, la prefettura… Marcel doveva collaborare, mettersi a disposizione, e fui molto colpito dalla deferenza, dall’atteggiamento affettuoso verso quel fratello maggiore morto mezzo secolo prima. Avrebbe potuto sottrarsi e non l’ha fatto. Villon era scomparso nel 1963, dunque, quando io lo vidi, Marcel era diventato il capofamiglia: molto interessante! Bisogna aggiungere che in quel momento egli non era tanto conosciuto: era sostenuto dagli artisti americani, da alcuni musei, poco dai francesi, e aveva quasi ottant’anni. Eppure per Le Cheval majeur fu estremamente collaborativo, partecipando perfino alla sua realizzazione materiale, accanto a uno scultore francese di origini italiane, Émile Giglioli. Indimenticabile quel pomeriggio: Marcel era molto elegante, quasi un po’ affettato… e c’era la Roue de bicyclette, a volte la toccava per farla girare, con leggera malizia…
E lei vedeva in lui l’aria di famiglia, l’affetto per i fratelli.
Non soltanto era stato legatissimo ai fratelli, ma fu anche attivo nel promuovere la loro opera: per Villon non molto, magari… in ogni caso, nel 1957, partecipò in prima persona alla realizzazione della mostra Villon / Duchamp-Villon / Duchamp al Guggenheim di New York. Nel circolo dei collezionisti americani ha sempre sostenuto i fratelli: in questo ha avuto un ruolo cruciale Walter Pach, certamente, ma anche Marcel ha fatto la sua parte. Infatti i più bei quadri di Villon sono negli Stati Uniti. Quando Jean-Jacques Lebel è venuto a vedere la mostra di Rouen sulla famiglia mi ha detto che era all’acqua di rose. Gli ho risposto: non è acqua di rose, è la realtà. Quella famiglia era legata, operosa, e tutto ciò si è svolto a Puteaux, grazie ai tre fratelli insieme: forse il più impegnato era Raymond, Marcel si è allontanato abbastanza in fretta, dopo lo scontro sul Nu descendant un escalier… Non è il caso di farne un romanzo, ma è comunque qualcosa di abbastanza eccezionale. E quando si vede la lista di quelli che frequentavano l’atelier di Villon… a parte il selvaggio che lavora lì accanto, Kupka, ci vanno Picabia, Delaunay, Léger, La Fresnaye, Mare, e si vedono bene i rapporti che li legano: tutto ciò è stato costruito dalla famiglia Duchamp.
Estate 1912, Marcel fa il viaggio a Monaco, esperienza di rottura, in chiave «antiretinica» e «anartistica», seguita allo scontro con i fratelli e gli altri cubisti della Section d’or: una sorta di atto edipico?
Assolutamente no, non penso proprio: l’atto è personale. La questione è complicata per il ruolo contro che può avere giocato Picabia, che Marcel aveva conosciuto qualche tempo prima. E inoltre non si sa molto di quel che gli succede a Monaco. Prende le distanze, dice che l’ambiente parigino lo infastidisce, e poi pensa alla sua grande opera, il Grand Verre: è in questo momento che la cosa comincia a diventare seria… e comunque non credo si possa parlare di una rottura familiare. Marcel scriveva poco, ma non ci sono tracce epistolari che possano far pensare a una rottura. E quando scrive a Suzanne che ci sono degli oggetti nell’atelier di Puteaux che vorrebbe recuperare, non vedo cosa ci sia di male: niente di recriminatorio.
Recentemente, a Roma, in un incontro pubblico, Barbara Rose ha sostenuto che Duchamp diventa Duchamp perché non è un grande pittore…
Non era poi tanto male! No, la sola cosa da dire è che la pittura non lo interessava davvero, quel che lo interessa è la storia della mariée e l’idea di poterne fare qualcosa di diverso, che vada oltre la pittura. Pensa di non avere nulla a che fare con quel gruppo, abbastanza mediocre, di «cubisti da Salon» che ruotavano intorno a Puteaux: tra di essi, è vero, c’era un maestro come Léger, ma alla fine Gleizes, Metzinger, Le Fauconnier, e in fondo anche La Fresnaye, che ne esce bene solo con due o tre quadri, non erano grandi artisti.
Torniamo a Villon: la critica ha avuto il suo da fare e, in fondo, ancora non è riuscita a dargli una collocazione stabile. In un saggio del 1975 Dora Vallier fece cadere il malinteso su Villon «cubista»: lo distingue nettamente dal cubismo e lo considera come il più coerente interprete, tra le due guerre, delle idee della Section d’or, basate su un recupero critico della tradizione prospettica, della prospettiva in chiave prismatica formulata da Leonardo. Dunque, ci aiuti a ‘situare’ Villon.
Lei dice bene, il problema di Villon è l’entre-deux-guerres: si trova solo, i fratelli e le sorelle non ci sono più. Suzanne non so che fine abbia fatto, Marcel è assente, Raymond è morto. È solo: anche dal punto di vista artistico. In occasione della mostra di Angers mi ero concentrato su un piccolo disegno del 1937, L’Art de demain: sul lato di sinistra, in prospettiva, si riconoscono un’opera di Matisse, una del Picasso analitico, una di Duchamp (il Nu), una di Mondrian; al centro il Grand Cheval del fratello Raymond; sul fondo un grande punto interrogativo, l’enigma dell’arte moderna.
E la sua produzione, come risente di questa solitudine?
Credo che tutto il periodo di inizio anni venti sia molto interessante, dopo c’è una flessione, è incontestabile: ancora con quadri molto belli, per esempio gli autoritratti, magnifici, ma comunque una flessione. Poi rinasce un po’… C’è una cosa impressionante, che sicuramente lo sostiene, ma al stesso tempo lo frena: la memoria di Raymond, il fratello morto. Quando si vedono le fotografie dell’atelier, è presente dappertutto.
Le sculture di Raymond, che Villon ha ereditato, vi figurano come dei Lari…
Assolutamente, proprio così. È una storia familiare dalla quale Duchamp rimane al riparo, anche se resta strano che ritorni per fare Le Cheval majeur. In Villon, invece, questa presenza di Raymond appare dappertutto, e entra nella sua opera, pure nei quadri piccoli, nelle cose senza importanza. In quel momento Villon era un isolato anche intellettualmente, e da questo isolamento sarebbe uscito solo molti anni dopo con l’intervento di Louis Carré, il grande mercante, a cui vendette tutti i dipinti nel 1942: una resurrezione.
Dunque, Villon ossessionato dal passato…
Dal fratello morto, da Raymond. Penso che non capisca un granché di Marcel: è affascinato dall’eredità intellettuale di Raymond.
C’è quell’episodio in cui, prima di allontanarsi da Parigi durante l’occupazione tedesca, e riparare prima a Bernay (Eure), poi a La Brunié (Tarn), Villon sotterra in giardino le sculture di Raymond, per proteggerle…
Sì, è il guardiano di questa memoria, ma insomma… non è divertente essere il custode di un cimitero. Colpisce il fascino esercitato su di lui dalla testa di Baudelaire, che Raymond aveva scolpito nel 1911. È interessante la sua idea di scomporla per piani sovrapposti. Ho acquistato un disegno che adoro [va a prenderlo e lo mostra]: titolo Baudelaire par plans, 1920. C’è questa ossessione di scomporre e di cercare, in fondo, di ripartire da quell’opera del fratello.
Di queste scomposizioni del Baudelaire ne fa tutta una serie, a partire da subito dopo la morte di Raymond: disegni, quadri, incisioni…
Molte, molte… Un dipinto, in particolare, a Nagoya in Giappone, è straordinario: anch’esso del 1920, titolo Présence.
Dunque, dopo la Prima guerra Villon si isola in un mondo tutto suo, poco compatibile con la scena dell’arte fuori, che cambia radicalmente…
Lungo tutti gli anni venti, per guadagnarsi da vivere, riproduce in acquatinta a colori opere di maestri moderni (Matisse, Picasso, Manet, Dufy, Braque, ma anche suo fratello Marcel, sua sorella Suzanne, suo cognato Crotti) per la Galerie Bernheim-Jeune. Si ha l’impressione che attraverso queste copie Villon riveda tutto, cerchi di rigenerarsi. Sono riproduzioni libere, non c’è nulla di accademico, qui [sfogliando il catalogue raisonné delle stampe e delle illustrazioni di Villon, opera di Colette de Ginestet e Catherine Pouillon, 1979] sembra quasi il lavoro di Picasso sulle Meninas… Alla fine si tratta di copie, ma il processo preliminare è estremamente interessante: una sorta di dialogo. Poi c’è l’episodio della sua adesione, 1932, al gruppo Abstraction-Création: non ci crede veramente, ma gli viene detto che deve starci, e si vede bene che nel lavoro è del tutto instabile.
Nell’anteguerra, dal 1911, fu importante per gli artisti della Section d’or il recupero di Leonardo, di cui Joséphine Peladan aveva tradotto in francese il Trattato della pittura: Villon inaugura le sue ‘sfaccettature’ colore-luce supportato teoricamente proprio da Leonardo…
Certo, il rapporto fu molto importante, non di tipo accademico, però: non si può dire che Villon fosse uno speculativo, semplicemente prende gli elementi di Leonardo che lo affascinano e che conosce bene… almeno mi sembra, ma preferisco essere prudente, non sono molto bravo nella teoria.
In occasione della monografica da lui curata ad Albi, 1955, André Chastel istituì un parallelo tra Villon e Mallamé, che lei ha ripreso. In che senso Villon è un artista mallarméen?
È un aspetto molto importante. Sulla base della piramide leonardesca, Villon si propone di raggiungere l’equazione perfetta di idea e mezzi espressivi. Come ha scritto Chastel, «c’era una prospettiva inebriante nell’idea che il quadro potesse instaurare una sorta di gioco superiore, essere una scena di forme pure». In numerose culture, i maestri tessitori giudicano prudente, dinanzi alla perfezione del divino, denunciare un «difetto» nell’eccellenza dei loro manufatti. Così Villon, che nelle sue tele lascia sempre a vista un piccolo spazio non coperto.
Nel 1906 Villon lascia Montmartre e la sua bohème per trasferirsi nell’atelier di Puteaux, 7, rue Lemȃitre, dove resta fino alla morte, 1963: per lui una sorta di seconda pelle…
Una prigione: è affascinante che si trovasse nel cuore dell’attuale Défense. C’è una foto dove si vede l’atelier e come, intorno, il quartiere vada modificandosi, non ci sono ancora i grattacieli ma già avvertiamo il futuro che avanza: è incredibile.
Un po’ inquietante…
Molto inquietante: come nel caso di Brancusi, aspettano che Villon muoia per procedere con l’abbattimento e le nuove costruzioni. È anche straordinario che, dopo la morte, gli facciano un funerale non di stato, ma municipale, a Puteaux, con l’esercito e anche la banda: un po’ derisorio… È un fatto che la famiglia Duchamp giri, per anni, intorno all’atelier di Puteaux: poi Villon resta solo.
Non c’era stata una campagna di stampa per preservare l’atelier?
Sono gli amici che vanno a parlare con il sindaco e gli dicono che dovrebbe farne un monumento nazionale… Hanno consentito a Villon di restare fino all’ultimo e di morire nel suo atelier: tutto sommato le autorità dell’epoca si sono comportate bene.
Nel secondo dopoguerra l’atelier di Puteaux, con il suo inquilino Villon, divenne una specie di mito modernista, poi, piano piano, la figura di Duchamp ha preso tutto il campo…
Un’onda terribile: naturalmente non è colpa di Marcel, ma degli zelatori, dei critici, così Villon è respinto nell’ombra…
E nella ricostruzione critica, a parte qualche eccezione, Marcel è rimasto, per così dire, senza famiglia: da una parte il dada, dall’altra le radici…
Un errore oggettivo: non è andata così. Certo, Duchamp aveva i suoi amici, che vivevano tra Parigi e gli Stati Uniti, era libero, indipendente, un personaggio meraviglioso. I conservatori del Musée National d’Art Moderne, per esempio Jean Cassou, non ci capivano niente, pensavano fosse un fumiste e lo dicono. Cassou l’ha anche scritto: è charmant, divertente, molto intelligente… tutti dicono che era intelligente, quindi lo doveva essere per davvero. Quando, nel 1967, ci fu a Rouen la mostra Les Duchamps, Marcel non fu messo in valore, deve addirittura esserne rimasto ferito. Quanto al rapporto con Villon, non spettava a lui difendere la pittura del fratello: non era un problema suo.
Lei ha avuto rapporti con la famiglia?
Conoscevo un po’ Teeny, la moglie di Duchamp – prima era stata sposata con Pierre Matisse, figlio di Henri, da cui aveva avuto tre figli –, ma con lei non ho parlato seriamente della questione familiare. Comunque a casa di Teeny si potevano vedere, affissi alle pareti, diversi quadri di Villon: non c’è stato ostracismo nei confronti del fratello maggiore, assolutamente no. Per i Duchamp, il fenomeno delle relazioni familiari è interessante in se stesso, e la mia posizione forse è un po’ semplice, ma, insomma, credo che la storia sia andata così… Quando ho fatto la mostra di Rouen sono venuti tutti, erano molto gentili, però parlo ormai della terza e quarta generazione, gli eredi di una lignée Duchamp-Matisse che, già di per sé, ha dello straordinario.
Nella sua mostra di Rouen, come già in quella precedente del ’67, sempre al Musée des Beaux-Arts, lei ha tirato dentro anche la sorella, Suzanne. Qual è stato il ruolo di Suzanne?
La sua posizione, marginale secondo le convenzioni sociali dell’epoca, appare tuttavia complementare e, per il gioco delle alleanze, rivelatrice dei dibattiti estetici maggiori.
Del resto Suzanne sposò Jean Crotti, che in seguito all’incontro con Duchamp e Picabia aveva abbandonato il cubismo orfico in favore del dadaismo…
Sì, a Rouen erano esposte anche due opere di Crotti… Di Suzanne c’era un quadro alquanto divertente, che si trova al Centre Pompidou: curioso nella composizione, il titolo Jeune fille au chien, del 1912, un interno con cani.
Villon: torniamo agli esordi. Cosa significò, per lui, essere entrato nell’avanguardia avendo alle spalle un lungo apprendistato nel mondo dell’illustrazione? Lo condivideva con Kupka, con Gris, anch’essi disegnatori di punta delle riviste umoristiche parigine… Lo stesso Duchamp, nella conversazione con Pierre Cabanne, ha chiarito come le sue frequentazioni iniziali, a Montemartre, fossero in prevalenza di umoristi.
Il fenomeno è interessantissimo. Si tratta di un’attività legata essenzialmente a ragioni di tipo economico, tuttavia la libertà di cui Villon o Kupka godevano, nel realizzare per esempio un intero numero de «L’Assiette au beurre», finiva per dare loro uno statuto che li rendeva qualcosa di più che semplici illustratori. Significava riconoscerli come giovani che segnano il proprio tempo. Poi, si sente bene che a un certo punto dicono «basta così», vogliono fare altro. I loro anni dal 1910 al 1912-’13 sono meravigliosi, insieme agli altri si ritrovano, discutono, hanno progetti… quella povera Maison cubiste realizzata da Duchamp-Villon, che, insomma, non è un granché: Kupka doveva esserne molto divertito perché, in fin dei conti, il cubismo architettonico di Praga era infinitamente più interessante.
Kupka, nel 1906, si era trasferito a Puteaux insieme a Villon: com’era la loro relazione?
Non si sa tanto bene. Kupka, certamente, ha partecipato ad alcune delle riunioni domenicali che si tenevano nell’atelier di Villon: erano così diversi, ma così vicini, più vicini di quanto non si pensi… È molto interessante: hanno quattro anni di differenza, Kupka del 1871, Villon del ’75, fanno più o meno parte della stessa generazione. Kupka viene a Parigi e ci resta, ma rimane ceco e mitteleuropeo…
Erano amici?
Vicini, non amici. Kupka, del resto, era molto selvaggio, poco socievole: è rimasto stranamente chiuso nel suo mondo, e in questo ci può essere una somiglianza con la situazione di Villon, anche se Kupka aderì con più convinzione, all’inizio degli anni trenta, al movimento Abstraction-Création, così come ha preso parte a Réalités Nouvelles dopo la guerra, pure qui socialmente più coinvolto di Villon, il quale, in fondo, era sostenuto soltanto da Louis Carré.
Marcel ha riconosciuto l’influenza iniziale del fratello maggiore: «avevo una grande ammirazione per la sua abilità nel disegnare». In quale aspetto della loro arte si esprime più compiutamente questa consonanza, l’esprit de famille?
Gaston e Marcel sono già adulti entrambi, ma si ritrovano in tutto quello che lega le loro memorie familiari a un certo erotismo… Io tenderei a vedere nell’arte di Gaston un erotismo latente vicino a quello di Marcel: la giostra dei maiali, la ragazza in bicicletta, tutte cose molto duchampiane, ma prima di Duchamp!
E – questione controversa – il futurismo in che modo li influenzò?
Si dice che sia stato Marcel ad andare a vedere, nel 1912, la mostra con cui i futuristi si rivelavano a Parigi, da Bernheim-Jeune, ed è stato evidentemente molto interessato: il futurismo, probabilmente, lo ha allontanato dai cubisti minori. Vi ha visto una vitalità che non trovava nell’arte di Metzinger e degli altri. Villon è forse meno vicino al futurismo di quanto non si pensi. Un altro aspetto che lega i due fratelli è comunque una certa idea di meccanica [indica, nel catalogo della mostra di Villon ad Angers, L’Atelier de mécanique, 1914]… qui [indica il capolavoro L’Équilibre o L’Acrobate, 1913] mi piace l’idea della verticalità, dell’equilibrio e del disequilibrio.
Villon ha scritto: «Se ricominciassi daccapo, non farei che della pittura. O dell’incisione. Fare le due cose insieme è difficile». Parliamo di uno dei più grandi incisori del Novecento, una specie di Mellan redivivo…
Assolutamente, è molto strano: c’è un aspetto molto seicentesco… Il Villon incisore ha suscitato anch’esso grande ammirazione. Qui dentro [sfoglia il catalogue raisonné delle stampe di Villon] ci sono dei tesori. Nell’illustrazione, è interessante il paragone con Kupka: Kupka è violento, mentre i fratelli Duchamp sono un po’ così… erotici, volatili, spiritosi, divertenti.