«Liberarmi dei fili e dei nodi in cui sono ingarbugliato e condurre una vita pura, guardando un cielo sereno di fronte a me. Non succederà. Ma è un bel pensiero». La voce profonda, dolcemente sepolcrale, di Iggy Pop scorre sui credit di chiusura di Good Time, dedicata al miraggio impossibile dei pure and damned, i puri e i dannati, che popolano anche l’ultimo film dei fratelli newyorkesi Benny e Josh Safdie, una late entry che, in chiusura di festival, porta una sferzata di vita al concorso. Come nei lavori precedenti dei Safdie, i protagonisti di Good Time sono puri perché osano, scelleratamente, spesso anche comic-stupid-amente, sognare aldilà delle loro circostanze (per esempio di accarezzare i coccodrilli – ancora in un’immagine di Iggy P.); dannati perché quelle circostanze ancorano i loro sogni a terra, come in mix di sabbie mobili e superglue.

Road movie notturno che ha la frenesia instancabile di una comica dei Keystone cops, il surrealismo dello scorsesiano Fuori orario, unito al tempo comico e alla dinamica razziale di 48 ore di Walter Hill, trascinato da un Robert Pattinson con il trasporto febbrile e grandioso di Al Pacino in Quel pomeriggio di un giorno da cani, Good Time inizia con un piano ravvicinatissimo sul volto di Benny Safdie. È Nick Nikas – nella singola lacrima che, faticosamente, scende lungo la sua guancia, mentre uno psichiatra gli fa delle domande, un doloroso concentrato delle paure e dei conflitti che occupano la sua mente fragile e infantile.

Suo fratello Connie (Pattinson), probabilmente per difetto, è di tutt’altra stoffa. Per dare a Nick fiducia in sé stesso ha in mente una terapia shock. «Sei stato incredibile! Una roccia! Senza di te non ce l’avremo mai fatta», gli dice abbracciandolo orgoglioso dopo che insieme, nascosti dietro a due grottesche maschere di gomma afroamerican, e con addosso giacche fluorescenti, hanno rapinato lo sportello di una banca. Colori acidi, stridenti, il magico occhio/obbiettivo di Sean Price Williams strettissimo su di loro e sempre in movimento, Good Time ti risucchia nel suo flusso, tesissimo e surreale, e non ti molla più.

Complice la colonna sonora di Onehotrix Point Never, che ricorda il sound elettronico avvolgente dei Tangerine Dream. Dal momentaneo successo del crimine (i soldi dovrebbero servire a pagare una vita tranquilla nelle campagne della Virginia, lontano dalla nonna greca un po’ arpia) esplode – insieme a una cartuccia di colore rosso, inserita dalla cassiera tra le banconote rubate, che scoppia in faccia ai due e marchia anche il loro bottino- una catena di disgrazie, una peggio dell’altra. Inseguito dai poliziotti in corsa, Nick si schianta contro una vetrata e viene arrestato. Per Connie è l’inizio di una lunga notte in cui tenta il tutto per liberare il fratello.

Prima ci prova con la cauzione e, per trovare i soldi, ricorre a Jennifer Jason Leigh, sognatrice anche lei che, ignara del piano in Virginia, s’immagina con Connie sul bordo di una piscina in Costa Rica. A spese sue naturalmente – se la madre non avesse bloccato la carta di credito da cui lui pensava di attingere diecimila dollari per riscattare la libertà di Nick. Che però, scopriamo intanto, non è più in prigione ma in ospedale, dopo essere stato pestato in una rissa. Lo sguardo concentratissimo di Pattinson –lanciato nella notte come un treno in corsa-, l’inesauribile scorta di decisioni che Connie sfodera, una dopo (e una peggio del) l’altra è l’ancora nel maelstrom dell’avventura. Vertiginosamente, come fuori dai finestrini, scorre la città, amatissima dai Safdie, e a cui, il loro cinema di strada rende sempre omaggio, nelle sue architetture, nelle sue istituzioni scassate (come quelle che ci racconta Wiseman) ma soprattutto nelle sue umanità.

Dalla cassiera della banca, alla nonna intervistata in tv, all’usuraio nell’ufficetto delle cauzioni, agli intendenti d’ospedale, ai poliziotti, all’autista di un ambulanza e al guardiano di uno scalcagnato parco a tema di Queens che si chiama Adventurland (i Safdie ci andavano da piccoli), a una ragazzina sedicenne che Connie seduce per un attimo. Squarci di newyorkesi (in un mix di attori e non) catturati con affetto, humour e precisione folgoranti. Puri e dannati anche loro come (quasi) tutti noi.