Le opere di Monica Biancardi sembrano sogni, immagini oniriche che creano spaseamento, sono frammenti di una realtà illusoria la cui fissità viene scossa da una lieve vibrazione, sono racconti di un silenzio in angoli di intimità, attimi che galleggiano sott’acqua, liquide visioni che prendono vita nel fluido amniotico dove l’artista immerge i pensieri e dove nuota tra idee e visioni immaginifiche. Ma i progetti della fotografa napoletana non hanno solo consistenza liquida, sono anche luoghi e persone dalla presenza rilevante, sono azioni e pensieri lunghi e profondi che diventano progetti, performance o installazioni. È il fluire del tempo che porta Monica Biancardi ai suoi lavori, anni in cui l’occhio è in tensione, in cui cerca di carpire l’idea, la forma e il colore, lunghi momenti in cui studia una sola immagine, o più di una, per arrivare al racconto, quello vero di un viaggio che è un percorso senza meta. Così negli anni l’artista costruisce e, quando termina un progetto, in cantiere ce ne sono almeno il doppio che si evolvono in un continuo turbinio. Viaggiatrice instancabile unisce il proprio rapporto con il territorio e chi lo vive ad un sentire superiore, il suo cammino si volge verso l’incontro, verso l’incrocio di culture, un dialogo aperto all’altro, non necessariamente condividendolo ma avvicinando la prospettiva. Monica studia ciò che vede e lo trasforma in fotografia, e se da un lato cerca la bellezza dall’altro si sofferma, quando c’è, sull’ingiustizia. Da oltre dieci anni segue periodicamente la crescita di due gemelline palestinesi che vivono in pieno West Bank, l’artista piomba da loro all’improvviso, una volta l’anno per immortalarle e le trova sempre lì insieme alla famiglia, immobili, nel deserto di Hebron, bloccate dal muro. La visione delle due bambine che si avviano alla pubertà, e ad indossare il velo, viene affiancato, nel progetto, dalle mappature dei cartografi dell’ONU che sono gli unici a fare monitoraggio del territorio. Così la crescita di Sarah e Sari, grazie alle carte geografiche, rivela quanti posti di blocco, quanti check point ci sono in più in quell’area da quando Monica Biancardi ha scattato la prima foto alle gemelline, dando forma e visione all’ingiustizia. Ma anche qui, in una natura pietrificata, senza acqua, dove i bambini saltano sulle pietre roventi e si spaccano i piedi, l’artista trova la bellezza, nei loro occhi e nei loro volti, dove prevale la purezza di un mondo così lontano dal nostro.

Ed è proprio dallo sguardo portatore di empatia che nasce il progetto artistico, oggi in fieri, Punti di vista, un cambio di prospettiva che appare come atto di comprensione, come scelta di identificazione e volontà di immedesimazione. Monica Biancardi restituisce in pellicola analogica, con un rigoroso bianco e nero, dittici o trittici che mostrano differenti piani di visione e sviluppano un sistema narrativo. I racconti hanno un andamento ondulare e seppure indichino una netta impostazione filosofica non sfuggono ad un sorriso ironico quando scoprono un mondo nuovo, osservato dagli altri, da un esterno che sia persona o oggetto, e da un’azione che si svolge su più campi contemporanei. Il progetto, presentato con enorme successo al MIA Photofair e prodotto dalla Shazar Gallery di Napoli, attinge ad un immaginario lieve, che presuppone una pausa riflessiva per il repentino cambio di ruoli. Cosi’ la scena che vede due donne, una occidentale e l’altra con il burqa, sedute a prendere il the, si trasforma, per i due punti di vista, in una molteplice riflessione sui sistemi di adattamento e sulla condizione femminile. Lo scatto che mostra la visione della donna che indossa il burqa appare come un punto di vista parziale, offuscato dalla rete, dalla gabbia di stoffa, uno sguardo a cui viene sottratta una parte di panorama, d’altro canto anche alla sua speculare, l’occidentale, è tolta la possibilità di un’osservazione completa proprio perchè l’altra donna è coperta dal burqa e quindi non visibile. Nelle storie di Punti di vista gli orizzonti cambiano anche se sembrano di primo impatto univoci, come per la prospettiva ribassata di un portatore di handicap, seduto su una sedia a rotelle che invece di godere del palazzo dell’EUR, come la sua vicina che si erge in piedi, ha solo delle scale di fronte a sè. Dolcemente Monica Biancardi piega il racconto verso esperienze intime ed universali come per il padre e figlio ritratti nella Biblioteca Nazionale di Parigi, immersi in un’atmosfera luminosa che pervade l’ambiente e che parla a bassa voce di libri e di parole, o per il poetico Passaggio di un anziano sulla spiaggia intento a guardare un tramonto, simbolo della fase calante della propria esistenza in contrasto con la vitalità di un amore dichiarato dalla scritta sul muro alle sue spalle.

Persone ed eventi si incrociano anche in un altro significativo progetto della Biancardi, evolutosi nel tempo, Ritratti, che le è valso il premio Two calls for Vajont per Dolomiti contemporanee nel 2015. L’opera metteva in scena la santificazione di alcuni degli abitanti di Casso, paesino piegato dal disastro e in cui sono rimasti in pochi. Le foto sono i volti ma anche, e soprattutto, le mani di chi non ha abbandonato Casso, di chi lavora con le mani e la cui postura, come moderni oranti paleocristiani, trasforma in icone della resistenza; completano le immagini delle cornici al neon blu, accenno alle edicole sacre, e una targa con il nome e la professione. Un lavoro antropologico che la Biancardi ha portato avanti intervistando e investigando sulla gente e sui luoghi.

Il flusso del tempo ha condotto l’artista a chiudere gli occhi e a percepire immagini che si collocano in luoghi diversi e in tempi differenti per unirsi nella macchina fotografica. Un puzzle che ha preso forma definitiva dopo più di sette anni di ricerca in RiMembra, progetto concluso da poco e confluito in una elegante pubblicazione della Damiani e che verrà presentato al Museo Macro di Roma, via Reggio Emilia, il 13 giugno alle 17.30. Le foto non hanno alcuna appartenenza apparente, sono accostate secondo sensazioni visive senza mai avere una vera dissonanza, anzi il loro essere vicine armonizza un insieme che appare naturalmente poetico secondo un linguaggio atavico di appartenenza universale.