Era inevitabile che con Draghi il sistema politico entrasse in un’area di turbolenza. Letta da un lato, Grillo dall’altro, si affannano per riguadagnare una salda presa sul timone. Che ottengano risultati non effimeri rimane da vedere.

Letta ha puntato a rinnovare la squadra, soprattutto scommettendo sulla parità di genere. Basterà a ridargli il controllo? Tutto gira sulla possibilità di liberarsi delle scorie del renzismo. Renzi scala il partito nel novembre 2013, con una primaria “aperta” in cui 2.800.000 votanti gli danno il 67% dell’assemblea nazionale, schiacciando i 300.000 militanti che lo avevano limitato al 45%. Segue la cacciata del premier Letta («Enrico, stai sereno»). Sconfitto nel referendum del 4 dicembre 2016, Renzi esce da Palazzo Chigi ma mantiene il controllo del partito, vincendo le primarie aperte del 30 aprile 2017 con circa il 70% dei voti sia tra gli iscritti che tra gli elettori.

Il mutamento genetico in PdR (Partito di Renzi, secondo una definizione) si è compiuto. Renzi segretario e il PdR sostengono il Rosatellum, che con il voto bloccato consegna al segretario la scelta dei «nominati» da eleggere. Il 4 marzo 2018 Renzi è sconfitto, ma porta i suoi pretoriani in parlamento. Il 18 e 19 settembre 2019 nascono i gruppi parlamentari di Italia Viva. E nei gruppi Pd rimangono renziani pentiti o «in sonno». È questo il contesto in cui si inserisce Letta.

Le primarie aperte sono per un partito organizzato una forma peculiare di suicidio. Mettono da parte nelle scelte decisive i militanti, che fanno vivere il partito giorno per giorno nelle sezioni e nei circoli territoriali. Sono l’esito ultimo della teorizzazione del partito leggero, funzionale a un soggetto politico privo di radicamento e di identità definita, poco più che un assemblaggio di comitati elettorali al servizio di capi, capetti, cacicchi. Per vincere la scommessa Letta deve operare per una nuova, salda, radicata organizzazione territoriale. E a tal fine deve anzitutto cancellare la primaria aperta dalla selezione dei dirigenti e delle candidature del partito. Nel frattempo, non si illuda che – coeteris paribus – cambiare un capogruppo ridia di per sé al partito un saldo rapporto con i gruppi parlamentari.

Quanto al Movimento 5S, poco giova il supposto trionfo del Ministero per la transizione ecologica. Qui i nodi sono due: la instant democracy del voto online, e il limite dei due mandati. Per il primo, in questa legislatura è stato stridente il contrasto tra il dovere di rappresentare gli oltre undici milioni di voti del 4 marzo 2018, e l’obbedienza servile richiesta ai rappresentanti rispetto al voto online di poche migliaia di militanti. Potrebbe mai un elettore M5S non militante accettare di essere schiacciato per via di referendum da pochi iscritti alla piattaforma? Il secondo nodo è dato dal limite tassativo dei due mandati. Impedisce la nascita di un vero gruppo dirigente, strumento essenziale per disegnare il progetto e l’identità di un soggetto politico. Non a caso, la saggezza dei partiti di un tempo indicava che le candidature dovevano riflettere per un terzo il territorio, un terzo le competenze, e un terzo appunto il gruppo dirigente.

Infine, la domanda: rinsaldare i soggetti politici per fare cosa? Qui Pd e M5S sono al palo. I tempi di una rigenerazione sono lunghi, quelli delle scelte sono brevissimi. La pandemia ci impone decisioni immediate che peseranno a lungo. Ci consegna un paese frammentato, impaurito, impoverito, colpito duramente nei suoi anziani per la salute, nelle donne e nei giovani per le aspettative e le speranze. Le statistiche su nati, morti, neet sottolineano il dissolversi della speranza. Non sarà una politica debole a ritrovarla. Lo dimostra Scanu, ieri su queste pagine, parlando delle spese militari. E l’art. 11 della Costituzione non è certo il solo che viene tradito.

Auguriamo buona fortuna a chi come Letta, o a suo modo anche Grillo, cerca di rimettere la barca in mare. Ma qualche marginale guadagno nei sondaggi non prova che basti. Bisogna fare di più. Si consolida la convinzione che non sarà possibile prima che il popolo italiano mandi nelle istituzioni – attraverso una buona legge elettorale proporzionale volta alla più ampia rappresentatività – persone scelte da elettrici ed elettori per servire con dignità e onore. Alla fine, che lo vogliamo o meno, la politica siamo noi. Tutti.