Otto elettori su dieci hanno bocciato la consultazione popolare ancor più dei cinque quesiti nel merito. Ciò non significa promozione della Ministra o approvazione dell’attuale funzionamento della magistratura e dell’esercizio della giurisdizione. I quesiti IV e V, pur respinti dal corpo elettorale, hanno trovato recepimento nella riforma dell’ordinamento giudiziario approvata il 16 giugno con la legge n. 71. Ora i magistrati potranno candidarsi al Csm senza firme e vedranno le loro carriere giudicate nei Consigli giudiziari anche da avvocati e professori. Parva materia, se non che l’ultima delle deleghe legislative al Governo volute da Marta Cartabia, riesce a non rafforzare il prestigio della magistratura, indicata in Costituzione come “ordine autonomo e indipendente”, e a non rendere efficiente e ragionevole (non solo nella durata) il processo.

Il nuovo ordinamento giudiziario non restituisce credibilità a una categoria la cui valutazione di professionalità è positiva per il 99,4% degli appartenenti e il cui trattamento economico è più alto di qualsiasi altro dipendente pubblico in posizioni di responsabilità. Al disdoro conseguente alla scoperta – solo per i disattenti – del ‘metodo Palamara’, come sistema di accesso e carriera nella magistratura, la legge 71 risponde con una delega vaga a rendere trasparenti i meccanismi di nomina degli incarichi direttivi e semidirettivi sempre con concorsi per soli titoli. Non valorizza nell’accesso alla carriera altre esperienze professionali qualificate o il titolo accademico per eccellenza, qual è il dottorato di ricerca, e cancella, tra le materie dell’esame orale, le istituzioni di diritto romano base degli istituti di diritto civile.

Paradossale pare la disciplina dell’elezione dell’organo di autogoverno mai tanto screditato. Evitata la scelta con la riffa, in sfregio all’art. 104 Costituzione, è stata prescelta una legge elettorale ipermaggioritaria premiante due candidati per collegio che spingerà verso un inedito bipolarismo. Ultimo tema à la page è la impossibilità per il magistrato di svolgere mandati parlamentari o, più in generale, elettivi sul presupposto privo di evidenze che perda per sempre imparzialità, persino candidandosi. L’attaccamento al potere – politico, economico e in qualche caso opaco – di settori della corporazione, tuttavia, non è causato dall’eccesso di politica o dall’ambizione per lo scranno, ma da un deficit di politica intesa come confronto tout court. La confusione tra poteri si deve anche ai magistrati che preferiscono gli uffici legislativi e i gabinetti dei Ministeri, delle Agenzie fiscali o delle Autorità indipendenti alle aule di Giustizia.

La sfiducia nella giustizia deriva dalla dimensione classista del suo funzionamento: il peso economico del contributo unificato, in particolare davanti il Tar, le condanne alle spese nei giudizi di lavoro, la sperequazione tra esecuzione penale in carcere per gli stessi fatti verso soggetti con basso reddito e scarsa formazione.
Sfiducia cui nessuno ha dato risposte, specie nel diritto penale, ad esempio introducendo le depenalizzazioni, impensabili per il triplice populismo: reazionario salviniano, qualunquista grillino e tecnocratico. Nessuno, ben prima della crisi, ha percorso nemmeno un tratto del diritto penale ‘liberale’: la riscrittura della legittima difesa e dell’eccesso colposo violentati dal duo Salvini/Bonafede, la depenalizzazione dei delitti di blocco stradale, ferroviario e in navigazione.

Avremo il recepimento del principio dalla Carta europea dei diritti dell’uomo del processo solo con una ragionevole previsione di condanna, in relazione criteri di adozione della custodia cautelare?
Vedremo se si darà spazio ai riti alternativi al dibattimento, alla luce della decisione della Corte costituzionale sull’estensione della messa alla prova, se sarà rinnovato il sistema delle pene detentive brevi. Vedremo se il Parlamento, dopo l’ultimatum della Consulta, avrà il coraggio di perpetuare la barbarie dell’ergastolo ostativo.