Per mettere in gabbia i pumas bisogna saperne una più del diavolo. Molla la presa, sbaglia tattica di gioco, concedigli un’occasione e sei fregato: loro ti graffiano e lasciano il segno. Ogni volta è così. I giocatori argentini non vanno mai troppo per il sottile. Sanno difendere e conoscono a menadito tutti i trucchi del mestiere. Quel poco che la partita e l’avversario mettono a disposizione loro lo sfruttano fino in fondo, fosse un calcio di punizione, un metro di campo conquistato, uno spazio da occupare. La fatica del rugby la conoscono fin troppo bene: nulla va sprecato perché tutto è prezioso. Nel mondo dell’ovale sono poeti parsimoniosi e ringhiosi. Intrattabili.

Anche questa volta i pumas hanno piazzato l’unghiata. Allo stadio Olimpico di Roma, sotto una pioggia incessante (37 mila spettatori), l’Argentina ha sconfitto l’Italia per 19 a 14. Una meta per parte ma tanta più precisione nei calci piazzati e maggior tenuta nei raggruppamenti per gli argentini che ancora una volta hanno saputo trasformare in oro e punti ogni occasione a disposizione. Gli azzurri concludono il trittico autunnale con una sola vittoria, quella di sabato scorso a Cremona contro Figi (37 a 31 nel match più folle e caotico a memoria d’uomo, con cinque cartellini gialli inflitti agli isolani). Prima ancora c’era stata la batosta con l’Australia a Torino: 20-50 e sette mete incassate dai wallabies.

L’ultima volta che gli azzurri riuscirono a battere gli argentini in Italia risale a 15 anni fa, era il 1998, a Piacenza. In mezzo due vittorie estive (2005 e 2008) a Cordoba. Una storia di sfide combattute, sporche, nervose: «Con loro sono sempre match rognosi», commenterà alla fine Sergio Parisse, che ieri ha raggiunto, insieme a Martin Castrogiovanni, i 101 caps in maglia azzurra. Non doveva dunque illudere quel parziale di 6-0 nei primi diciotto minuti (due piazzati di Tommaso Allan) perché non appena l’Argentina ha cominciato a muovere palla ha puntualmente trovato gli spazi in cui infilarsi, guadagnando terreno e creando pericoli. Al 20’ è così arrivata la meta di Juan Imhoff, dopo l’ennesimo inserimento di tra le linee azzurre, un mancato placcaggio e un sapiente passaggio all’ala del Racing Parigi. Nicolas Sanchez trasformava e i pumas erano avanti 6-7. Cinque minuti dopo Allan riportava avanti l’Italia con un piazzato (9-7). Nel frattempo la touche italiana andava in bambola – tre palloni persi di seguito – e un incredibile pasticcio di Michele Campagnaro a ridosso dei 22 metri azzurri consentiva a Sanchez di battere un comodo penalty che portava gli argentini di nuovo avanti (10-9).

Era una partita brutta, povera tecnicamente, resa ancor più ruvida dalla pioggia e dal pallone scivoloso. L’impressione era che l’Argentina avesse qualche idea in più sul come fare a venirne a capo, mentre gli azzurri sembravano meno lucidi nella gestione dell’ovale, spesso indecisi nelle soluzioni e molto timorosi nell’aprire il gioco al largo, ma una partita di trincea era esattamente ciò che gli argentini speravano. Il primo tempo si concludeva con i pumas avanti e molti, troppi quesiti da risolvere.

Dopo un quarto d’ora della ripresa l’Argentina allungava ancora con un piazzato di Sanchez (13-9), poi l’arbitro, il neozelandese Pollock, puniva Ayerza con un cartellino giallo e l’Italia si trovava nelle condizioni di giocare dieci minuti con un uomo in più. Giungeva la meta di Campagnaro, che riusciva a schiacciare a terra un calcio a spiovere di Allan dopo una serie di attacchi nei 22 metri avversari (14-13) ma era ancora Sanchez, infallibile dalla piazzola, a punire gli azzurri con due penalty (27’ e 32’) che fissavano il risultato sul 14-19.

L’Italia provava a risalire la china con manovre di sfondamento ma ogni volta si trovava davanti un muro invalicabile che non arretrava di un metro: mettere sotto gli argentini sul piano fisico è impresa quasi impossibile. Qualche pasticcio di troppo, palloni persi in attacco, l’ovale che sfuggiva a Parisse nell’ultimo assalto e fine della storia.

Un successo avrebbe certamente cambiato gli umori in casa azzurra e le prospettive in vista del prossimo Sei Nazioni. La delusione era dunque più che evidente sul viso di Jacques Brunel: «Era una partita che avremmo potuto vincere, ma ci è mancata la capacità di gestire il gioco e di concretizzare i calci piazzati».

Nove mesi fa l’Italia si era presentata al Sei Nazioni con una squadra consolidata, per nulla timorosa nell’aggredire gli avversari e imporre il proprio gioco, solida in difesa e a tratti spavalda (il meraviglioso finale di partita al Twickenham). Giocando bene aveva battuto Francia e Irlanda. Poi il tour di giugno in Sudafrica, tre sconfitte con Springboks, Scozia e Samoa e una netta involuzione: otto mete incassate. Nei primi due test di questo novembre altre sette mete dall’Australia e cinque da Fiji: la difesa è diventata un colabrodo. Si sono viste forze nuove, soprattutto nella trequarti (Campagnaro, il giovanissimo Tommaso Allan in regia, Leonardo Sarto, Luca Morisi e Tommaso Iannone), ma quasi tutti sono giocatori che devono ancora crescere e maturare – e per Morisi, che dopo un incidente con Figi ha dovuto subire l’asportazione della milza, il recupero si annuncia lungo e difficile. Tommaso Allan, 20 anni, madre italiana e padre scozzese, potrà migliorare molto se il suo Perpignan lo farà giocare con la necessaria continuità, ma intanto deve migliorare nei calci: ieri ne ha sbagliati 5 su 8, per un totale di 14 punti. Nel mentre l’intera squadra sembra aver perso il suo equilibrio. Da qui a febbraio servono risposte e soluzioni, altrimenti saranno dolori.