Marco Bellocchio è stato un nume tutelare della cultura del ’68, a partire da I pugni in tasca che deflagrò sugli schermi poco prima della data fatidica, aprendo nello scricchiolìo di quel sistema borghese una falla non più rimarginata. È bello che dopo tanti anni l’autore piacentino, ormai acclamato maestro mondiale del cinema, torni sui temi che lì si agitavano, lavorando a una ricomposizione nel cucire assieme le storie di Ale (il figlio matricida del film, interpretato da Lou Castel) e l’antico Oreste del ciclo tragico degli Atridi, fratello di Elettra e figlio di Agamennone e di Clitennestra (questa uccide il marito di ritorno dalla guerra a Troia, e il figlio insufflato dalla sorella vendica il padre massacrando lei a sua volta).

Se il film nascesse allora dallo schema del ciclo mitologico, solo Bellocchio può saperlo: il successo fu dirompente per la spettrografia che l’opera del regista scopriva di una società malata nel profondo. Ora però questa doppia lettura a ritroso, più che per motivi filologici si fa apprezzare per il lato analitico, perché nel confronto e nello scavo tra le due psicologie «in parallelo» emergono per lo spettatore spunti di riflessione, e anche di sorpresa, molto interessanti, che fanno volentieri tralasciare qualche eccesso di ruvidezza o «schematismo» nella messinscena di Filippo Gili (anche attore sulla scena essenziale, arcaica e borghese a seconda dei momenti, approntata da Roberto Rabaglino, e coi costumi assai casual scelti da Daria Calvelli). Perché in scena, ed è forse la sorpresa principale dello spettacolo e dell’intera «operazione» (detto in senso nient’affatto spregiativo) a dominare su tutti gli altri personaggi e interpreti è, nel doppio ruolo di Ale e Oreste, Piergiorgio Bellocchio, figlio di Marco e omonimo dello zio dei mitici Quaderni. Ha statura d’attore e ricchezza di sfumature, oltre alla prestanza dei personaggi non piccoli che è chiamato ad impersonare. In lui vive il dilemma, o la magnifica ambiguità, dei due giovanotti sanguinari, e con lui lo spettacolo riesce a dare prospettive complementari ai loro gesti, così lontani nel tempo eppure così intimamente coincidenti.

Grazie a lui il «teorema Bellocchio» sulla colpa e sulla responsabilità si fa plausibile e degno di essere rivissuto ogni sera. Anche se un dubbio rimane, alla fine: l’Oreste cui il cineasta fa riferimento è quello scritto da Euripide, di cui è noto il virulento cinismo e l’atteggiamento nichilista davanti al degrado di Atene e della sua democrazia lungo il quinto secolo. Il matricida perseguitato dalle furiose Erinni è salvato solo dalla razionale decisione, sempre divina, di Pallade Atena. Nell’Orestea di Eschilo invece, Atena lo fa assolvere e salvare dalla prima forma di democrazia comparsa sulla scena occidentale, il tribunale eletto dal popolo di Atene. Se si pensa non solo alla riforma Basaglia, ma a tutte le conquiste sociali e civili avvenute in questi decenni, forse un confronto di questo tipo, per quanto contraddittorio, non sarebbe stato meno interessante.