«Chi decide come si fonda un partito, i giudici o i cittadini?» ha sbottato via Twitter Matteo Renzi, a proposito dell’inchiesta della magistratura sui presunti finanziamenti per mezzo della Fondazione Open. In effetti in democrazia non dovrebbero essere i giudici. Ma neppure armatori, possessori di cliniche private, amministratori delegati di grandi gruppi farmaceutici e tutta la pletora di corporazioni. A prescindere dalla liceità di quei finanziamenti per la politica renziana.

Dovrebbe infatti essere evidente il loro carattere distorsivo nei confronti della vita di un paese che si dice democratico. Ma così non è, se è vero che la totalità degli attori politici oggi sulla scena, a cominciare dai grillini che si sono precipitati a esprimere lo sdegno per la vicenda dei facoltosi amici di Renzi, hanno per anni fatto della lotta al finanziamento pubblico ai partiti il proprio marchio di fabbrica.

Un provvedimento che non ha eguali in Europa, e che non ha incontrato oppositori, tutt’al più favorevoli riluttanti, tutti evidentemente confidando in potenziali entrate alternative.

La politica, tutta la politica, è così piombata nelle grinfie dei proprietari di tutto, che ora posseggono direttamente anche i partiti. E anche se i giudici alla fine non rileveranno niente di illegale, bisognerà pur notare che tra le prime prese di posizione pubbliche della neonata Italia Viva c’è stata la radicale opposizione alla revoca della gestione ai privati della nostra rete autostradale, e che nella lista dei finanziatori c’è gente che proprio in quel settore ha interessi giganteschi.

C’è poco da meravigliarsi, ricchezza e democrazia vivono di assedio reciproco, e l’equilibrio è possibile solo in virtù di questo assedio. Se la ricchezza prevale, la democrazia soccombe. La sinistra lo ha sempre saputo, e lo hanno sempre saputo i milioni di operai e contadini che strappavano dal salario i soldi della tessera e della cena alla festa di partito. La rivoluzione russa alleviò un po’ la disparità tra quelli che allora erano i partiti operai e i partiti borghesi anche in questo campo: quando a Nenni nel ’49 mancarono i fondi per l’acquisto della carta che alimentava le rotative di Mondo Operaio andò a cercarli in Cecoslovacchia. Lo stesso problema non avevano democristiani e liberali.

Pure il finanziamento estero rappresentava senz’altro un fattore di distorsione, ma è tutto da di mostrare che l’interesse di uno Stato estero danneggi la vita democratica, in termini di strategia di sviluppo e di garanzia dell’interesse generale, più di quello di un grande gruppo finanziario. Tanto più in un’epoca come la nostra, e qui sta il vero salto di qualità della stagione attuale, in cui spesso un hedge found ha un bilancio superiore a quello di uno Stato. Disparità c’è sì sempre stata, ma oggi il divario tra i partiti amici delle grandi corporazioni e le potenziali alternative si fa davvero incolmabile, sulla falsariga di quanto successo nella società tra le élite e la gente comune. Due fenomeni che si alimentano l’un l’altro.

La politica nel frattempo ha abdicato ad una delle proprie funzioni fondamentali selezionando la classe dirigente non in modo autonomo, ma andandola a prendere in prestito proprio da quei gruppi, banche, Tv, finanziarie ecc. Che poi spesso a fine carriera del politico X ringraziano a suon di consulenze. Si chiama sistema delle sliding doors, e rischia di travolgere quel che resta della credibilità di tutte le democrazie.

Allora, affinché si possa parlare di una vera democrazia, non sarebbe meglio limitare il finanziamento privato ai partiti, anziché quello pubblico? Porre un severo tetto di spesa alle donazioni private, e specialmente per le campagne elettorali, potrebbe essere un buon modo per ridare credibilità alla politica, assieme ad un ritorno al finanziamento pubblico condizionato da una piena trasparenza.

Un finanziamento magari da quantificare non solo in denari, ma anche in servizi utili e indispensabili alla vita politica democratica dei partiti. A questi provvedimenti andrebbe affiancata anche una severa riduzione degli emolumenti dei deputati europei, nazionali e regionali, anch’essi al giorno d’oggi spropositati e distorsivi alla sana dialettica all’interno delle assemblee (la maggiore e più ricorrente arma di compravendita è spesso la promessa di una ricandidatura); d’altro canto si tratta di introiti che costituiscono le uniche garanzie di possibilità di vita per un partito, e che un finanziamento pubblico adeguato permetterebbe di rimodulare.