Uno dei tanti luoghi comuni che circondano i rom vuole che questa minoranza si ostini a vivere nei campi rifiutando la sola idea di trasferirsi in una casa come tutti. Luogo comune da mesi alimentato insieme ad altri da una propaganda razzista verso le comunità rom e sinti che vivono nel nostro Paese (e composte nella maggioranza dei casi da cittadini italiani), e utile ad accrescere un allarme sociale buono solo per le campagne elettorali. Sarà un caso, ma passata l’ultima tornata elettorale sono diminuite in televisione le magliette con stampate sopra ruspe pronte ad «abbattere» i campi rom.
Eppure il tarlo razzista ha ben scavato in un’opinione pubblica sempre più allarmata. «Nella classifica dell’odio sociale rom e sinti oscillano sempre tra la prima e la terza posizione nelle indagini sociologiche. E’ come se questa moltiplicazione di odio avesse fatto cadere il tabù del razzismo, che oggi si dichiara senza più imbarazzi» spiega il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato introducendo i lavori del convegno «Superamento dei campi, esperienze a confronto». Un allarme che appare ancora più ingiustificato se si pensa che in Italia rom e sinti sono in tutto 160 mila, e di questi solo 40 mila vivono nei campi. A fronte di una popolazione di 60 milioni di abitanti.
Eppure non è scritto da nessuna parte che debba essere per forza così. In Europa ci sono Paesi con presenze molto più numerose di rom e sinti in cui è stato possibile raggiungere livelli di integrazione molto alti. In Spagna, ad esempio, all’inizio degli anni 2.000 vivevano 800 mila rom, dei quali 80 mila nella sola Madrid, città che contava nella sua area metropolitano 6,5 milioni di abitanti. La metà di quegli 80 mia erano stranieri e 13 mila risiedevano nei campi. «Nel 1998 prese avvio un programma di integrazione con la creazione di un ente pubblico e l’obiettivo di superare i campi, un progetto reso possibile grazie anche all’utilizzo dei finanziamenti previsti dal fondo europeo sociale», spiega il senatore del Pd Francesco Palermo. Nel 2011 si è cominciato a chiudere i campi, oggi praticamente tutti dismessi avviando un percorso di integrazione delle famiglie rom. «La cosa interessante – prosegue Palermo – è che il 96% delle famiglie riallocate dichiara oggi di sentirsi integrate e la metà ha acquistato la casa in cui vive».
E in Italia? Se si supera il fragore della propaganda razzista, si scopre che anche da noi non mancano esperienze positive. Tenute magari un po’ in sordina proprio per non aizzare le solite proteste. Ad Alghero, ad esempio, dagli anni ’80 vivevano un centinaio di rom in un campo alla periferia della città. A settembre del 2014 un censimento ne ha contati 51, tra i quali 30 minori. «Grazie a un finanziamento regionale di 250 mila euro – racconta il sindaco Mario Bruno – abbiamo avviato un progetto per trasferire queste persone in una casa. In città il 60% della case sono seconde abitazioni chiuse per gran parte dell’anno. Abbiamo presentato le famiglie ai proprietari, offrendo la garanzia del comune per l’affitto e lentamente siamo riusciti a vincere le differenze». Il 29 gennaio scorso il campo è stato chiuso definitivamente. Allo stesso tempo l’amministrazione ha avviato un piano di edilizia popolare per gli algheresi senza una casa.
Interessante anche l’esperienza di Torino. Qui già nel 1998 era stato avviato un piano di ricollocamento in casa che ha coinvolto più di 500 famiglie rom. Poi la crisi economica ha costretto molte di queste a tornare nei campi per l’impossibilità di continuare a pagare un affitto, per quanto popolare. «Un problema che non riguarda ovviamente solo i rom ma anche i torinesi, al punto che stiamo pensando a nuove forme di edilizia pubblica», spiega il vicesindaco Elide Tisi. Due anni fa è stato avviato un progetto per circa 600 rom che vivevano in un campo situato in una area considerata a rischio. E’ stato stipulato un «patto di emersione», in cui i rom si sono impegnati a iscrivere i bambini a scuola e a rispettare regole della convivenza, e l’amministrazione a trovare degli alloggi in cui trasferirli, ma anche un lavoro nei paesi di origine, favorendo così i rimpatri volontari.
A Roma, invece, 25 famiglie rom sono state alloggiate in uan casa popolare grazie a un bando del 2012 indetto dall’allora giunta Alemanno. Si stanno inoltre costituendo 5 cooperative di donne rom.
A Milano, infine, il comune sgombera i campi offrendo però subito un’alternativa, come spiega l’assessore all sicurezza Marco Granelli: «Inizialmente si tratta di centri di emergenza sociale dove i rom possono restare al massimo per sei mesi, durante i quali viene avviato un percorso di integrazione. Ma ci sono anche appartamenti gestiti insieme al terzo settore dove le famiglie alloggiano per tre anni durante i quali anziché pagare l’affitto destinano i soldi a un fondo da utilizzare per l’avvio di un’attività. Sono i primi passi verso un’abitazione definitiva».